l’Italia non è più un paese di emigrazione?
Intervento Delfina Licata nella Presentazione Quinto Rapporto Migrantes Italiani nel Mondo
Sono ormai passati 5 anni dalla prima edizione del Rapporto Italiani nel Mondo da quando cioè la Fondazione Migrantes ha scelto di affrontare una sfida ovvero di farsi carico di uno studio sistematico sulla situazione dell’emigrazione italiana oggi, sfatando 3 pregiudizi che sono propri del nostro Paese:
- l’Italia non è più un paese di emigrazione;
- non è possibile parlare di emigrazione italiana senza ricorrere alle immagini in bianco e in nero e, in particolare, alle valige di cartone;
- l’interesse per l’emigrazione è stato completamente sopraffatto da quello relativo all’immigrazione.
Il superamento di questi tre preconcetti è la linea guida che accompagna questo progetto editoriale dal 2006.
Flussi e presenze
Dal 2006 a oggi c’è stato un aumento di residenti italiani all’estero di poco meno di 1 milione (ovvero oltre il 30%).
Se inizialmente gli aggiustamenti sono stati dovuti alla correzione/allineamento dell’Aire con gli schedari consolari, l’archivio attualmente registra dei flussi effettivi che portano all’aumento di circa 200 mila unità l’anno. Un aumento consistente ma non tale da poter dire che di anno in anno si registrino differenze sostanziali.
Possiamo delineare però delle caratteristiche:
1. L’emigrazione italiana è soprattutto euro-americana.
2. L’Argentina e la Germania, quindi l’Europa e l’America Latina, sono i territori che hanno polarizzato maggiormente nel passato gli arrivi degli italiani e che continuano ad esercitare una forte polarizzazione; l’Argentina con le richieste di cittadinanza, da riferire alle generazioni successive alla prima, quella degli oriundi che continuano a mantenere vivi i loro contatti con l’Italia e la Germania che non solo è un paese facilmente raggiungibile in quanto in prossimità dell’arco alpino ma permette anche più frequenti rientri nella propria regione.
3. I cittadini italiani residenti all’estero provengono prevalentemente dal Meridione.
4. Il protagonismo delle donne è notevole.
5. I giovani adulti prevalgono sempre più sugli anziani.
6. È crescente l’incidenza dei celibi/nubili.
7. Il 26% è all’estero da 5 anni o meno, il 36,2% da più di 15 anni.
8. 1,5 milioni di italiani all’estero non hanno vissuto l’emigrazione ma sono nati all’estero.
Ma ogni anno quanti italiani si spostano, per trasferirsi all’estero o in un’altra parte del Paese con le migrazioni interne?
Sono 400 mila, ovvero 1 ogni 150 residenti, e l’elenco è presto fatto:
• Partenze dall’Italia all’estero: ~ 50 mila
• Spostamenti dal Sud al Centro-Nord: 120 mila
• Rientri dal Nord al Sud: 50 mila
• Pendolari di lungo raggio (Sud-Nord): 136 mila
• Pendolari Italia-Estero: 11.700
• Frontalieri: 45 mila
Nell’approfondimento dedicato alla Puglia curato da Pierpaolo Bonerba si constata, ad esempio, che annualmente il 45% dei 23.500 nuovi laureati lascia la regione, per lo più definitivamente.
Aspetti socio-economici
Nel clima generale di forte crisi economica, che si sta vivendo a livello nazionale e internazionale, si deve registrare un calo annuale del 20,7% del fatturato delle imprese italiane all’estero, che nel 2009 si è fermato a “soli” 290 miliardi di euro. Una eccezione in positivo è, però, quello della Cina, la quale, nonostante il generale clima negativo, è cresciuta seppure del solo 3,5%, ma purtroppo questi rapporti incidono ancora poco sul volume complessivo. Dall’analisi dettagliata svolta da Roberto Bisogno si deduce la presenza di 2 mila aziende e 1.642 lavoratori: la Cina guarda all’Italia soprattutto per la moda e il design.
Nella storia dell’emigrazione italiana troviamo innumerevoli spunti che pongono in evidenza la capacità di iniziativa dei nostri connazionali. Sono stati approfonditi in questa edizione del Rapporto Migrantes due diverse forme imprenditoria, legata l’una a un prodotto tipicamente italiano e l’altra alla industriosità tipicamente italiana che si è occupata di un prodotto estero: si tratta dell’industria del gelato in Germania, di cui parla Luca Storti, e del fish&chips in Irlanda, di cui si occupa Dominoni insieme a tutti coloro che lavorano al Progetto “Irlandiani.com”.
I gelatai italiani in Germania, associati nell’Uniteis, hanno accreditato in terra tedesca un nuovo modello di consumo basato su un prodotto mediterraneo fortemente simbolico, legato ai paesaggi assolati, sicuramente rielaborato sul posto ma con una certa purezza artigianale (a differenza dei pizzaioli, maggiormente portati al sincretismo per rispondere ai gusti dei tedeschi). Lo sforzo di questi pionieri veneti, originari del bellunese e del cadorino, ha avuto un ritorno positivo sull’Italia per quanto riguarda la fornitura di macchine, arredamento e basi per il prodotto. Attualmente, però, sono notevoli le difficoltà di ricambio generazionale, perché i figli (cresciuti in patria presso i parenti, un po’ come fanno oggi le donne filippine e ucraine con i loro figli) si sentono meno coinvolti e si è costretti ad assumere i nuovi dipendenti tra i non italiani, mentre per far fronte alla crisi economica viene modificata l’impostazione originaria e alla vendita del gelato si affianca anche quella di altri prodotti di caffetteria e di pasticceria.
In Irlanda, invece, gli italiani (tra i quali molti provenienti da Sora, Cassino e altri paesini ciociari, che parlano il cosiddetto “inglese-ciociaro”), negli anni ’50 si sono distinti nell’organizzare e diffondere un prodotto assolutamente non mediterraneo, il fish&chips, costituendo la National Fish Fryers Association e assicurandosi ottimi guadagni.
Aspetti socio-culturali
Una delle peculiarità del Rapporto Migrantes, che dopo 5 anni si può dare per acquisita, è che parlare di mobilità umana significa parlare di una dimensione prettamente umana. Occorre partire dalla persona per capire le dinamiche sociali ed economiche della mobilità e a ciò non sfugge l’emigrazione italiana, che anzi enfatizza questa linea di lettura.
Proprio per questo motivo sono innumerevoli le storie raccontate nelle pagine del Rapporto Migrantes 2010.
Ad esempio, i ricercatori Iavarone-Lasorella, intervistati da Danilo Angelelli, sono noti per aver scoperto la nuova funzione della proteina Huwe1, il gene che svolge un ruolo chiave nello sviluppo delle cellule staminali coinvolto anche nel più aggressivo fra i tumori al cervello, e richiamano l’esodo dei nostri ricercatori all’estero.
Giovanna Chiarilli ha dipinto diversi ritratti significativi, tra cui quello di Andrea Boattini, da noi definito lo scopritore di comete: infatti, sono 15 le comete che portano il suo nome e che ne fanno uno dei 15 cacciatori di comete più agguerriti al mondo, scoprendone, in media, cinque all’anno, l’ultima l’11 ottobre 2010. E sempre con lo sguardo verso il cielo c’è Riccardo Giacconi. Non è casuale la frase che il fisico Giuseppe Occhialini ripeteva al proprio allievo Riccardo Giacconi: “Go west, young man” ovvero “Ragazzo, vai all’ovest”. Ed è proprio dopo essersi trasferito negli Stati Uniti che Giacconi, nativo di Genova, si è affermato nel mondo dell’astrofisica con una ricerca costante sui telescopi a raggi X che consentono di analizzare aspetti del cosmo invisibili all’occhio umano. A lui si deve anche la costruzione del VLT (Very Large Telescope), il più grande telescopio ottico terrestre, uno strumento che si compone di un insieme di quattro telescopi di 8,2 metri di diametro ciascuno in funzione contemporaneamente per scrutare le profondità dell’universo. Le scoperte scientifiche sono state oggetto di un capitolo specifico realizzato da Vincenzo La Monica.
Dalla graduatoria Top Italian Scientists risulta che l’Italia ha i suoi più bravi scienziati all’estero, dove i più hanno realizzato il loro percorso professionale: dei 12 italiani insigniti del premio Nobel in chimica, fisica e medicina, solo Giulio Natta, premiato nel 1963, condusse le sue ricerche interamente in Italia. Una curiosa graduatoria, che recentemente (nel mese di ottobre 2010) ha richiamato l’attenzione della stampa, è quella che cura la classifica degli scienziati italiani attraverso l’indice di Hirsch (h-index), elaborato per misurarne il grado di produttività: risulta, in generale, che solo 7 scienziati su 10 lavorano ancora in Italia, tuttavia con queste particolarità: mentre tra le prime 20 posizioni il 60% è all’estero, tra gli ultimi 100 in graduatoria il 71% è in Italia.
La recente indagine (2010) sui ricercatori italiani all’estero, svolta dal Centro Nazionale delle Ricerche sulla Popolazione/CNR e curata da Carlotta Brandi, conferma che in prevalenza si tratta di giovani (anche se non più giovanissimi), all’estero da più di dieci anni (ma nei due terzi dei casi ancora con la cittadinanza italiana), in prevalenza impegnati nelle materie scientifiche e riconoscenti per avere trovato all’estero una maggiore gratificazione professionale, le attrezzature necessarie e i fondi indispensabili.
Andando dalle storie dei singoli a una lettura strutturale, vediamo che da entrambe le indagini citate emerge che:
- l’estero ruba all’Italia i “più bravi”;
- molti degli attuali “più bravi” sono andati all’estero prima di diventare ciò che oggi sono e quindi significa che fuori dall’Italia vi sono molte più opportunità da poter cavalcare quando c’è preparazione e professionalità;
- i ricercatori italiani sono cresciuti e si sono specializzati all’estero;
- i ricercatori italiani che sono all’estero si fanno formatori di nuove generazioni di scienziati e ricercatori, avendo a disposizione sia queste nuove ed entusiaste leve che i fondi indispensabili per portare avanti i vari progetti di ricerca.
Attuali mete “preferite” sono l’Europa (Regno Unito in primis) e Stati Uniti, ma si affacciano all’orizzonte nuovi sbocchi in Oriente e in Africa.
Sull’Africa e le interrelazioni con la lingua italiana, grazie a Raymond Siebetcheu, dell’Università per Stranieri di Siena, abbiamo scoperto aspetti davvero interessanti: 106.354 studenti di italiano, il doppio degli italiani residenti nel continente e 560 scuole pubbliche africane dove si insegna italiano. Questi dati, sinceramente inaspettati, fanno capire quanto nelle relazioni con l’Africa, già grande protagonista dei flussi migratori verso l’Italia e destinata a diventarlo sempre più, sia fondamentale l’uso della lingua.
Diversi contributi in questo Quinto Rapporto indagano la lingua italiana, le problematiche insorte a causa del taglio dei fondi per la promozione della lingua e della cultura all’estero che accrescono ulteriormente le difficoltà economiche, le prospettive, le interrelazioni tra identità e comunicazione. Sulla stampa italiana all’estero Raffaele Iaria ha analizzato l’Oceania, completando così l’analisi che in precedenza aveva riguardato l’America, l’Europa e l’Africa, mentre attraverso Loredana Cornero ci siamo occupati della Comunità Italofona e di Italradio. Un Mondo di Italiani diretto da Mina Capussi è il Giornale Quotidiano Internazionale analizzato quest’anno, quale esempio di prassi comunicativa per gli emigrati italiani residenti all’estero. Si tratta di un magazine in continua sperimentazione di prassi linguistiche e comunicative perché, come nel suo capitolo spiega Tiziana Grassi (vincitrice del Globo Tricolore 2010 di Italian Women World per il suo impegno e i suoi studi dedicati all’emigrazione italiana), “è la lingua che fonda e conferisce identità. (…) nel linguaggio sono dunque racchiuse e riconoscibili le peculiarità dei distinti gruppi umani. La lingua come carattere costitutivo del Sé, testimonianza, espressione. Il mediatore più potente di cultura, veicolo del pensiero e del simbolo, porta d’accesso principale alle relazioni umane e sociali”.
Eppure la lingua, oltre veicolare unità, è stata molte volte foriera di discriminazioni e di pregiudizi, che hanno colpito pesantemente gli italiani come spiega Giancamillo Trani nel suo approfondimento. Gli esempi sono davvero tanti: dagli epiteti di spregio Carcamano in Brasile e Guinea negli Stati Uniti (dove si era arrivati a pensare che l’italiano fosse l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia) sino alla campagna denigratoria di pochi mesi fa raffigurante i frontalieri come topi che rubano il formaggio e quindi la ricchezza svizzera.
Aspetti religioso-pastorali
I pregiudizi hanno riguardato non solo la lingua parlata, la preparazione culturale, il lavoro svolto ma anche la religione praticata, anche quest’ultima superata solo con il tempo e a prezzo di grandi sofferenze.
Ne è prova l’approfondimento sulla situazione delle chiese e del cattolicesimo vissuto a New York.
Nel 1696, l’allora sindaco di New York City annunciò che vi erano solo 10 cattolici nella sua città e, addirittura, nel 1700 una legge arrivò a bandire la presenza di sacerdoti cattolici, pena l’ergastolo. Ma già nel 1880 New York era in prevalenza abitata da cattolici, che alla città avevano dato diversi sindaci. Dopo questi umili inizi, grazie ai flussi prima di irlandesi, poi di italiani e infine di latinoamericani, oggi nell’area si trovano 2.000 chiese, 6.000 sacerdoti e più di 10 milioni di cattolici (di cui 2,5 milioni nella sola città di New York). Non si tratta solo di una evoluzione quantitativa perché senz’altro diversi aspetti della sensibilità latina si sono radicati in loco fondendosi in maniera originale con altre peculiarità della tradizione anglosassone.
Ricca e interessante è a questo riguardo la testimonianza di Alessandra Rotondi: «L’uso dei cellulari è bandito ed ogni messa inizia con l’invito a spegnerli, accolto nel 90% dei casi. Molti fedeli poi, si avvicinano a fare la comunione percorrendo diversi metri in ginocchio. Il ricorso alla simbologia è ampio. Spesso si potrebbe essere indotti a pensare ad una sorta di “ostentazione”, ma poi ci si rende conto che l’uso dei simboli diventa indispensabile per dichiarare l’appartenenza ad un gruppo, ad una comunità, in una società multietnica. Ad esempio: l’inizio della Quaresima è sancito dalla distribuzione delle ceneri che qui vengono ripartite sotto forma di carboncino. Una croce nera, che occupa tutta la fronte, viene disegnata ai fedeli e viene portata da questi per tutto il giorno nei posti di lavoro, per strada, dappertutto. Giornalisti o personaggi televisivi, vanno in diretta esibendo questa vistosa croce senza il minimo problema e le persone con cui interagiscono accettano questa sorta di “dichiarazione di fede” con entusiasmo anche se di altre professioni o completamente lontani da qualunque credo. Analogamente, i fedeli indossano vestiti dello stesso colore della ricorrenza religiosa che viene celebrata o che in qualche modo la richiamino: il Venerdì Santo, ad esempio, le chiese si dipingono di viola in tutti i sensi, mentre invece a Natale a predominare è il rosso (il sacro si mischia al profano e il bianco della festa cede il posto al rosso di Babbo Natale); il 17 Marzo, festa di San Patrick, non c’è persona che non porti un qualcosa di verde. Sono piccole cose, piccoli gesti, ma servono per identificare un’appartenenza.
La confessione è garantita giornalmente e l’impressione è che vi sia un maggior ricorso a chiedere, come impegno per non recedere nel peccato, di recitare un numero spesso alto di preghiere. Tale impegno è vissuto molto profondamente, come anche l’impegno solenne a rinunciare a qualcosa di concreto all’inizio della Quaresima. Una delle domande più frequenti che viene rivolta tra cattolici in quei giorni è: “A cosa ti sei impegnato a rinunciare durante questi 40 giorni?” E spesso le risposte che si sentono sono: “No facebook, no cioccolata, no vino o alcool, no televisione”. E succede veramente. Potremmo reagire sorridendo, ma poi ci si rende conto che i cattolici americani, siano essi adulti o bambini, nati e cresciuti nella più materialista delle società, sono sereni di privarsi concretamente di qualcosa in nome della fede. (…) Infine, poiché New York rimane una città frenetica che offre tutto 24 ore su 24, anche le chiese, per non perdere la frequenza dei fedeli e per invogliarli ad entrare, offrono musiche e addobbi floreali molto curati, calorosi saluti di benvenuto da parte di diaconi o sacerdoti, ma anche altri “stratagemmi” come ad esempio quello adottato dalla Chiesa di San Malachy che, trovandosi confinante con i migliori teatri di Broadway, celebra una messa vespertina il sabato alle h. 23, cioè 10 minuti dopo l’uscita della gente dai teatri e spesso e volentieri, gli stessi attori e ballerini degli show, le vere star di Broadway, smessi i panni di protagonisti delle piece, indossano quelli di cantori solisti o musicisti per animare la messa. Efficace e molto bello».
Approfondimenti
Tanti e diversi sono gli approfondimenti anche di questa quinta edizione del Rapporto Migrantes: si spazia dai paesi di residenza dei nostri connazionali (Russia, Cipro, Messico e Tunisia), alle città dove vivono (Londra e Shanghai), alle regioni di partenza (Lombardia, Molise e Puglia), ai comuni italiani di cui sono originari (Augusta e Avellino). Ad esempio, la Provincia di Avellino è oggetto dell’analisi di Toni Ricciardi a trent’anni dal terribile terremoto del 1980 che coinvolse anche le province di Salerno e Potenza e ben 679 Comuni, causando 2.735 morti e 8.848 feriti e provocando un forte esodo verso il Nord e l’estero.
Quali erano le condizioni degli italiani? I mezzi di trasporto (nave, aereo, treno), la vita che si conduceva, la miseria, le attese davanti agli uffici di polizia, i bambini lasciati soli nelle strade, gli ambienti penosi di lavoro, le miniere, la case annerite dei minatori con sullo sfondo le montagne di carbone, i poveri interni delle case, i mestieri desueti, l’espressione triste e sofferente dei volti, l’abbigliamento, i simboli religiosi, le catastrofi, i funerali e ancora altri scatti: la produzione di immagini riguardanti gli italiani all’estero è assai vasta. Questa sterminata mole di fotografie è stata spesso raccolta in cataloghi e volumi pubblicati da oltre un ventennio sia in Italia che oltre i confini nazionali. In questa produzione sono sicuramente prevalenti le immagini provenienti dagli archivi privati. Questi contengono ogni tipo di ritrattistica individuale, scene conviviali e cerimoniali domestici, riti che celebrano l’unità di famiglie spesso disperse tra le molteplici sedi di destinazione e il luogo di partenza. Si tratta di documenti che, oltre a prevalere sul piano numerico rispetto alla tutt’altro che scarsa consistenza di fotografie commissionate da istituzioni pubbliche, periodici o quotidiani, sono stati anche oggetto del maggior numero di riflessioni sull’iconografia dell’emigrazione. È questo quanto si desume dall’approfondimento di Paola Corti salvo poi fare alcuni esempi di fotografi come appunto Lucas Euliano e il suo scatto sull’emigrante meridionale a Milano.
Proust, ne La ricerca del tempo perduto sosteneva che «le canzoni, anche quelle brutte, servono a conservare la memoria del passato», in esse risiede qualcosa del “tempo perduto”, dell’immaginario della gente, fatto di sentimenti e di aspettative. La canzone dell’emigrazione è un filone importante che percorre trasversalmente la storia della canzone italiana intrecciandosi ai diversi repertori e tradizioni stilistiche e musicali, senza una specifica unità formale. Essa, forse più che la storia ufficiale, ci ha tramandato la storia dell’emigrazione. Lo ha fatto con sensibilità culturali molto diverse. Con versi dal linguaggio ricercato, che affonda le radici nella tradizione classica italiana, o altri sperimentali, di rottura, con una lingua vicina al parlato quotidiano. E così Eugenio Marino ci accompagna in un viaggio musicale che spazia da Modugno a Tenco, da Rino Gaetano a Guccini, De Gregori, Endrigo, Fossati e tanti altri.
Indagine Migrantes 2010
Già da diversi anni la Redazione del Rapporto Migrantes, per completare le fonti primarie con indagini sul campo, si fa carico di aggiornare il flusso informativo con indagini appositamente condotte in diverse città estere, importanti per la nostra emigrazione. Nel 2010 questa ricerca ad hoc, imperniata su corposo questionario di 45 items, si è svolta, da gennaio a giugno 2010, con la collaborazione degli uffici di alcune organizzazioni che da diversi anni collaborano con la Fondazione Migrantes per la redazione del Rapporto e fanno parte del suo Comitato scientifico (Epasa-Cna, Sei-Ugl, Sias-Mcl, Inca-Cgil). I paesi presi in considerazione quest’anno sono Canada, Francia, Regno Unito, Romania e Spagna, raggiungendo complessivamente 649 italiani, sia tra quelli che si sono recati personalmente presso gli uffici di queste organizzazioni sia tra altri dei quali si possedevano gli indirizzi. Ogni struttura ha autonomamente proceduto alla somministrazione e alla raccolta del questionario dopo averlo fatto riempire, mentre le elaborazioni sono state curate dalla redazione centrale del Rapporto Migrantes.
Le risposte date evidenziano che questi emigrati, che possiamo definire “comuni”, hanno un’istruzione secondaria medio-alta (67,2%), si sentono per lo più integrati nel paese di accoglienza, dove non hanno problemi di lingua, sono proprietari di casa e si sentono soddisfatti del lavoro che conducono. Non pensano di rientrare in Italia, ma ci tengono a precisare che quanto da loro conquistato è il frutto di anni di sacrificio e di un percorso di vita in cui hanno dovuto affrontare e superare prove dure ma inevitabili. Insomma, l’immagine di una emigrazione matura e consapevole, che merita una riconsiderazione da parte italiana.
Conclusioni
Cinque anni dalla pubblicazione del primo Rapporto Italiani nel Mondo e tanta strada fatta, con una corposa redazione nazionale e una più ramificata redazione transnazionale, per cui si fa fatica ad accontentare in breve tutte le persone interessate, cercando nello stesso tempo di salvaguardare la linea ispiratrice del Rapporto, che riporta anche gli episodi e le biografie, affronta tutti gli argomenti possibili, si tuffa nella storia, non trascura le dimensioni culturali e religiose ma, da tutti questi aspetti, vuole trarre una griglia di lettura in profondità di quel grande fenomeno che sono gli italiani nel mondo.