Acqua purissima, farro biologico e libertà ecco la birra che ha conquistato i sommelier
Fonte: www.repubblica.it
Prodotta artigianalmente da due rifugiati afgani, la bionda “Alta quota” è stata una delle sorprese del Salone del gusto di Torino. Ma il suo valore va oltre il gusto inimitabile: “Ha il sapore della dignità ritrovata”dal nostro inviato VALERIO GUALERZI
CITTAREALE (RIETI) – Farro biologico autoprodotto in montagna e acqua purissima che sgorga a oltre 1.600 metri, nel cuore della Valle del Velino. La birra artigianale “Alta quota” al recente Salone del gusto di Torino ha conquistato pubblico e sommelier, ma non è la genuinità di questi straordinari ingredienti a renderla speciale. A farne una bevanda unica è lo speciale gusto di libertà e di dignità riconquistata. A produrla sono Amid e Mohammed. Nascosti in un tir che ha attraversato mezzo continente sono arrivati dall’Afghanistan per chiedere asilo politico in Italia. Del paese che li ha costretti a scappare portano ancora le ferite, nell’animo e sul corpo. Le prime si colgono a occhio nudo, nello sguardo smarrito e allucinato di chi ha vissuto troppo tempo nel terrore. Le piaghe del corpo le ha viste invece Claudio Lorenzini, l’uomo che sta cercando di restituir loro una vita normale. “Per lavorare nel birrificio dovrebbero indossare scarpe antinfortunio, ma Amid ai piedi ha ancora i segni delle torture e ha difficoltà ad indossarle”, racconta Lorenzini, amministratore del “Gabbiano”, una cooperativa sociale che da anni si occupa di favorire in Italia l’inserimento di chi chiede asilo. Alle sue “cure” sono stati affidate decine di somali, iraniani, kosovari e libanesi.
“Il ministero dell’Interno – spiega Lorenzini – attraverso il ‘Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati’ stanzia circa 30 milioni di euro
l’anno per permettere alle amministrazioni locali di accogliere i fuggitivi”. Dal 2001 ad oggi a beneficiare di questo servizio sono stati oltre 40 mila cittadini stranieri, 7.845 dei quali nel 2009. Uno sforzo che vista la portata del fenomeno andrebbe ampliato ulteriormente. “Oltre 40 milioni di persone nel mondo – ricorda la portavoce dell’Alto commissario Onu per i rifugiati Laura Boldrini – sono costrette a vivere lontano dalle proprie case, da tutto quello che avevano a causa di guerre e violazioni dei diritti fondamentali. Nei 27 paesi Ue ve ne sono 1,4 milioni, in Italia 55mila”.
Ci sono disperati analfabeti, ma anche persone che in patria hanno lasciato attività professionali redditizie; vittime di una violenza cieca e persone perseguitate per la loro militanza politica. “Per tutti si tratta di trovare un alloggio, di mantenerli e di favorirne l’integrazione insegnando loro la lingua e avviandoli a un lavoro che li renda quanto prima indipendenti”, sottolinea Lorenzini. Il “Gabbiano” attualmente gestisce due progetti dello Sprar: uno nato attraverso la collaborazione tra i comuni reatini dell’Alta Sabina per l’accoglimento di 25 rifugiati e un altro, sostenuto dall’amministrazione di Cittareale, un piccolo comune situato nell’ultima propaggine nordorientale del Lazio, che offre ospitalità ad altri 15.
E’ da una costola di quest’ultima iniziativa, lanciata non solo per nobili ragioni umanitarie ma anche per salvare l’asilo nido incrementando il numero di famiglie residenti, che è nata l’idea di iniziare a produrre la “Alta quota”. “Per la formazione professionale – spiega Lorenzini – ci siamo appoggiati a lungo a degli esterni, ma spesso l’attenzione rivolta ai rifugiati era limitata e il rapporto si chiudeva inesorabilmente a conclusione del periodo concordato. L’esigenza era quindi quella di fare in proprio, creando le condizioni per una vera occupazione”. Il primo esperimento è partito a Poggio Moiano, un altro piccolo comune del reatino, con la costruzione di 400 metri quadrati di serre pensate sia per istruire i rifugiati a lavori che ormai nelle campagne gli italiani evitano accuratamente sia per sostenere quella che Lorenzini chiama “l’autosufficienza alimentare”. “La cosa ha funzionato talmente bene – ricorda – che la verdura hanno iniziato a venderla al dettaglio”. Ad occuparsi delle serre sono due afgani e un curdo scappato dalla Turchia. Anche loro sono arrivati in Italia dopo vicende drammatiche e né il tempo né la distanza sono riusciti a far sparire la sensazione di essere ancora braccati, ma per fortuna c’è spazio anche per aneddoti divertenti. Come la scelta di fissare prezzi folli per le amate cipolle nella speranza che vadano invendute.
Rispetto alle serre la scommessa di realizzare il birrificio è stata ancora più azzardata dovendosi confrontare anche con i precetti religiosi. “Sono musulmani credenti e in particolare Mohammed è molto osservante”, racconta Isabella D’Attila, una delle operatrici del “Gabbiano” che segue il progetto di Cittareale. “Per fortuna ci hanno spiegato che per loro fabbricare una bevanda alcolica non è un problema, l’importante è non berla. Portare avanti il lavoro durante il mese del Ramadan, tra preghiere ripetute e digiuno, è stata però una bella impresa”. Di questo aspetto, come del loro passato e del viaggio per arrivare in Italia, Amid e Mohammed preferiscono non parlare. “All’interno del birrificio facciamo tutto noi, dalla macinazione dei malti fino all’imbottigliamento”, si limita a dire con malcelato orgoglio Amid. “Ma per loro il massimo della soddisfazione è stato spillare la ‘Alta quota’ alla sagra del paese – racconta Lorenzini – Quando davanti a loro si è formata la coda si sono finalmente sentiti importanti e apprezzati. In quel momento vedere i loro occhi brillare è stato qualcosa di impagabile”.