Quanta ipocrisia in un click-day
Fonte: www.lavoce.info
di Maurizio Ambrosini
Il decreto flussi non serve all’ingresso in Italia di nuovi lavoratori dall’estero, richiesti nominativamente da imprese e famiglie. Serve a regolarizzare persone già presenti in Italia, ma prive di un permesso di soggiorno che li autorizzi al lavoro. Si riapre anche la possibilità dell’ingresso sotto sponsor, seppure in modo contorto e ipocrita. Ancora una volta, il governo della linea dura si rivela nei fatti incoerente. Meglio sarebbe una politica più trasparente, con la possibilità di convertire il permesso di soggiorno da turistico a lavorativo.
Sono i giorni dei click-day. Datori di lavoro, famiglie, operatori di patronati e associazioni, sempre più spesso semplici persone immigrate, appostati davanti al pc aspettano il momento fatidico per l’inoltro della domanda di ingresso di lavoratori dall’estero. Si stima che la finestra rimanga aperta circa 100 secondi per ognuno dei tre giorni previsti: un’indecisione nella digitazione, un nome un po’ più lungo, un intasamento nella linea, possono significare la fine di un sogno. Stiamo parlando del decreto flussi: quasi 100mila ingressi in palio, 52mila per lavoro dipendente non stagionale da paesi firmatari di accordi con l’Italia, 30mila collaboratrici familiari e addetti all’assistenza, altri lotti di minore entità per altre ragioni (conversioni di permessi di soggiorno per studio o per lavoro stagionale, lavoratori che hanno seguito corsi di formazione nei paesi di origine e altri).
LA FINZIONE DELL’INGRESSO DALL’ESTERO
Qualcuno, come la Caritas di Venezia, ha lamentato un’incoerenza tra l’apertura a nuovi ingressi e la disoccupazione che colpisce italiani e immigrati in conseguenza della crisi. Ma se guardiamo al di là delle apparenze, ci accorgiamo che dietro i click-day si profila una realtà ben diversa da quella ufficiale.
Era dal 2007 che non veniva emanato un decreto flussi. Allora fioccarono 750mila domande, tanto che l’anno successivo il governo decise di ripescare altri 150mila candidati dalle liste dell’anno precedente: come se quelle esigenze di manodopera, se tali erano, non avessero dovuto cercare nel frattempo altre risposte. Proprio l’esempio del 2008, certificato dalle dichiarazioni degli ultimi due primi ministri, ci dice che in realtà il decreto flussi serve principalmente a uno scopo abbastanza diverso da quello dell’ingresso di nuovi lavoratori richiesti nominativamente da imprese e famiglie. Serve in realtà a regolarizzare lavoratori già soggiornanti in Italia, ma privi di un permesso di soggiorno che li autorizzi al lavoro. È improbabile che una famiglia, o anche un’impresa, decida di far arrivare dall’estero una persone sconosciuta, per affidarle persone care o macchinari costosi. Molto più probabile, invece, che sia disposta ad attivarsi per mettere in regola una persona di cui ha verificato l’affidabilità, nel corso di un periodo prolungato di lavoro non dichiarato.
Si ricorre così alla finzione del richiamo dall’estero di un lavoratore, obbligato, se la domanda va in porto, a tornare in patria di nascosto e a rifare i documenti per poter rientrare in Italia ufficialmente, con un permesso di lavoro. Una finzione che consente di salvare l’immagine della fermezza, ma comporta costi, ansie e disagi per tutti, compreso un apparato burocratico già affaticato, sovraccaricato di pratiche inutili. Una finzione, soprattutto, che disegna un’ingiusta linea di confine, determinata dal caso oltre che dalla benevolenza dei datori di lavoro, tra chi riesce a vincere la lotteria del decreto-flussi e chi rimane nella trappola del lavoro sommerso, sotto il rischio dell’espulsione e persino del carcere.
LA NOVITÀ DI QUEST’ANNO
Quest’anno però è intervenuta una novità: può fare domanda per un’assunzione dall’estero anche un immigrato in possesso del semplice permesso di soggiorno, purché il suo reddito sia almeno doppio di quello del dipendente. Non serve più la carta di soggiorno come nel 2007 (governo di centro-sinistra). Come hanno già notato alcuni osservatori (per esempio, Franca Deponti e Francesca Padula sul Sole-24Ore), questo imprevisto gesto di liberalità servirà a molti immigrati per richiedere l’ingresso di parenti e amici in veste di colf, o in altri casi come dipendenti delle loro imprese (oltre 200mila in Italia). Si tratta di un modo surrettizio per riaprire la possibilità dell’ingresso sotto sponsor, già prevista con maggiori garanzie dalla legge Turco-Napolitano e abrogata dalla Bossi-Fini. Una possibilità sensata, perché è meglio far entrare chi ha parenti e amici in grado di accoglierlo e aiutarlo, piuttosto che dei migranti isolati e senza appoggi. Ma, di nuovo, si ricorre a strade contorte e ipocrite per fare cose ragionevoli.
Ancora una volta, il governo della linea dura si rivela nei fatti incoerente. Meglio sarebbe una politica più trasparente: possibilità di convertire il permesso di soggiorno, da turistico a lavorativo, entro quote predeterminate e privilegiando le esigenze delle famiglie con carichi assistenziali; reintroduzione dello sponsor, magari prevedendo l’intervento di un soggetto terzo (istituzione pubblica locale, sindacato, organizzazione solidaristica) che assicuri formazione linguistica e accompagnamento dei nuovi ingressi. Ma bisognerebbe che l’immigrazione non fosse un tema così rovente e redditizio delle ricorrenti campagne elettorali.