Pechino-Torino, la nuova rotta delle adozioni
Fonte: www3.lastampa.it
Un’altra possibilità per i figli che vengono da lontano
Gli istituti cinesi accettano genitori stranieri solo dal 2009
Antonella Mariotti
Torino:In una via di Torino lunga poche centinaia di metri si nasconde il giro del mondo. Apri la porta del Cifa, il centro adozioni che da trent’anni accompagna le famiglie a cercare figli che non arrivano, e subito ti sorridono decine di foto da un tabellone. Nomi e sguardi tutti in lingue e colori diversi
Dietro le scrivanie di via Foscolo sono in tanti, la metà volontari: «E’ la cosa che più ci rende liberi, io sono in pensione – dice il direttore Gianfranco Arnoletti – e per questo mi prendo parecchie libertà, anche nei confronti delle istituzioni e della politica…».
Al secondo piano ci sono le scrivanie dove i ragazzi hanno a che fare con tutta la burocrazia. «Chi vuole fare un’adozione internazionale sceglie un’associazione convenzionata con alcuni paesi e inizia un percorso di colloqui». Alla fine di un percorso fatto di psicologi e tribunale si può finalmente partire. Su una lavagna c’è una lunga lista di famiglie, a gruppi di cinque o sei ogni venerdì, pronte per il volo Roma-Pechino. «La Cina ha aperto le frontiere per le adozioni internazionali nel 2009. Per ora però hanno concesso solo le liste “special needs”. Sarebbero le liste di bambini “non perfetti”, ma i cinesi hanno standard molto alti: a volte per entrarci, basta essere un po’ troppo magri».
Ambra Enrico accompagna le famiglie a Pechino e racconta di un paese con una burocrazia rapidissima, un’accoglienza straordinaria e istituti per l’infanzia, poveri, ma non d’affetto. «Certo non è stato facile avere le autorizzazioni, ma ora siamo quelli che hanno il numero di adozioni più alto».
Nell’ultimo anno sono arrivati a Torino 72 bambini cinesi. Spesso vengono ancora guardati con diffidenza. «E’ vero – dice Paola con in braccio Simone, quattro anni e due deliziosi occhi a mandorla – Per strada mi chiedono se mio figlio è vietnamita. Quando dico che arriva da Pechino la risposta è quasi sempre un gelido “ah”…».
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I GENITORI / 1
«In due giorni ho lasciato l’orfanotrofio»
Ti apre la porta mentre sta incollato alla sorellina più grande. Fu-ijè ha quattro anni. Sul tavolo della sala da pranzo ci sono salatini e patatine, ma lui non tocca nulla se prima non mangia anche Sara, la sorellina maggiore che di anni ne ha sette e viene dalla Bielorussia. Paola e Federico un giorno hanno deciso che Sara doveva avere un fratellino e non importava da dove. «Ci siamo rivolti al Cifa ci hanno detto che c’era quest’opportunità, la Cina. Conoscevamo il Paese per questo non abbiamo avuto problemi. Ed è comunque stata una sorpresa per tutto». In che senso? «Un’efficienza meravigliosa, in cinque giorni abbiamo fatto tutti i documenti per il bambino. Il passaporto l’abbiamo ottenuto in 48 ore». Paola, 44 anni, ricorda ancora quando ha ricevuto la telefonata dal Cifa: «Ero all’estero per lavoro e mi sento dire: c’è un bambino disponibile per l’adozione, devi decidere entro domani mattina, è nelle special needs».
Un binomio inglese che significa bimbi “non perfetti”. «Che – dice Paola – vuol dire tutto e niente per i loro parametri». Intanto Fu-ijè salta dal divano alle braccia di Sara, mangia, ride, e di speciale sembra avere solo una grande allegria e disponibilità verso gli altri, ti fa vedere il cellulare di papà con un video per chiederti «chi è questo?» come se tu fossi parte della famiglia. «Mio figlio era anemico, ecco la sua “specialità”: era cresciuto a riso e verdura bollita». Paola e Federico, che di anni ne ha 48, sono andati a prendersi il loro secondo figlio nella provincia dello Jxandong, tra Shangai e Pechino, una zona industriale dovein pochi parlano l’inglese, e dove i figli sono un bene così prezioso che la coppia occidentalecon un bimbo ha fatto insospettire una commessa di un negozio di scarpe. «Abbiamo spiegato alla commessa la storia di nostro figlio, ma non riuscivamo a capirci. Ha chiesto aiuto a una collega. Alla fine ci ha ringraziato piangendo». L’abbandono di minori in Cina è illegale e la popolazione ha una venerazione per i figli, ma per avere più di un figlio occorre pagare una tassa. «Fuijè vuol dire “consegna eccezionale” – racconta Federico -. E’ stato trovato fuori dall’istituto con due vestitini e un biglietto: “Trovate per lui qualcuno che lo ami”. Quella madre ha fatto un sacrificio enorme». Poi Paola racconta le «regole» per il passaggio alla nuova famiglia. «Le maestre dell’istituto hanno voluto le nostre foto. La prima volta che nostro figlio ci ha visto ha subito indicato Sara. gridando “Jejè”. Che vuol dire sorella maggiore». Poi il ritorno in Italia. «Non abbiamo avuto grandi difficoltà, siamo in un gruppo di amici dove molti hanno adottato. Siamo un esempio di famiglie allargate al mondo….». Entri in una casa torinese, fai il giro del globo. Esci, scendi due gradini e sei di nuovo in centro città.
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I GENITORI / 2
«Aspettiamo un fratellino per Mongkol»
Sono sicura che il mio secondo figlio arriverà: in fondo ho avuto molti “segni”. L’altro giorno in un negozio ho comprato una cosa e dentro c’era scritto “Made in China”». Chiara, 37 anni, è una bella mamma che ride sempre, il marito Piergiorgio, tre anni più grande, la guarda e scuote la testa: «Chiara adesso è tutto “Made in China”». Lui lavora a Torino, ma la casa l’hanno scelta a Benigno, nel Cuneese. Hanno già un figlio adottivo, Mongkol, «l’unico bambino colorato del paese », spiega Chiara. Mongkol sa che Chiara è la sua «mamma di cuore» mentre la «mamma di pancia» è rimasta in Cambogia e ha fatto, per lui, un grande sacrificio.
Chiara per suo figlio ha scritto e disegnato una favola con una famiglia di topolini, Momò è il protagonista con Mimì la mamma che «ha preso la decisione giusta». E tra un po’ arriverà un fratellino o una sorellina. «Non importa, basta che arrivi in fretta: non vediamo l’ora». Chiara stringe le mani di Piergiorgio che continua a guardarla con tenerezza, mentre Mongkol protesta per i cartoni animati.
«Credo molto ai segni – riprende Chiara – la settimana prima che ci arrivasse la telefonata per Momò avevo comprato una pochette in un negozio di prodotti etnici. Poi mi sono accorta che nella targhetta c’era scritto che era stata prodotta in Cambogia e proprio nella provincia da dove viene nostro figlio».
Certo adessotrovare un “segno dalla Cina” è più facile. E non vi preoccupa l’accoglienza che potrebbe avere un bimbo di un’etnia così criticata di questi tempi? «Abbiamo la fortuna di abitare in una piccola frazione. Il nostro bambino è stato accolto benissimo, si è inserito perfettamente. Sarà così anche per il secondo. E magari per il terzo….». Piergiorgio non sembra molto d’accordo: «Aspettiamo di avere il secondo e poi vediamo». «Siamo genitori giovani – “protesta” Chiara – ce la possiamo fare…».
Intanto Momò ha già due “sorelline a distanza”, gemelle. «Abbiamo conosciuto Davin e Davine in uno dei nostri viaggi in Cambogia, un paese che amiamo moltissimo. Guardi, abbiamo anche un tatuaggio nella loro lingua sul polso. E abbiamo deciso di aiutare la loro famiglia. Abbiamo deciso anche di aderire alla Wac (Waltzing around Cambodia; ndr), l’associazione di famiglie torinesi che ha adottato bimbi cambogiani. Chissà se ne nascerà una per la Cina». Intanto Cipo, il cagnolino di famiglia si nasconde dietro le tende. «Per lui non sarà facile – sorride Chiara -, con due bambini in giro per casa..».