Le imprese meticce
Fonte: www3.lastampa.it
Gli immigrati che si mettono in proprio a Torino sono in costante aumento. All’inizio
i clienti erano soltanto connazionali, ora il mercato si è allargato
Elena Lisa
Torino: In un pezzo di terra a Carmagnola, accanto a sua maestà il Peperone, Huxian Zhao coltiva cavolo di Pechino, germogli di bambù e lattuga sheng cai. Cura varietà asiatiche di ortaggi da cinque anni, da quando è diventato il fornitore di ristoranti cinesi con l’ambizione di preparare piatti secondo la tradizione più rigorosa. Il signor Zaho è proprietario di un piccolo spaccio, ha quattro dipendenti e a Torino vive felice.
Raducu Ureche ha aperto un’ azienda edile nel 2005, un anno prima delle Olimpiadi Invernali, un buon periodo, serviva manodopera e lui ha lavorato sodo, ma chiuso il business dei Giochi non credeva nel futuro della sua impresa. Invece, non solo oggi è ancora attiva, ma ci lavora pure il più piccolo della famiglia arrivato dalla Romania nel 2007. Lo stesso anno in cui Abdel Amid Habib è sbarcato dall’ Egitto. Lui, adesso, a Porta Palazzo vende kebab. Per i suoi panini si fa la fila, e in coda si mettono anche i fedelissimi della bagna cauda.
Da sola non basterà a salvare le sorti delle nostre casse, ma è innegabile che l’intraprendenza degli uomini e delle donne venuti da Paesi lontani sta dando una vigorosa spallata alla crisi piemontese. Se l’impresa è il tessuto dell’economia, quella «meticcia» – nata in Italia per mano straniera – è una stoffa assai resistente: il trend è nazionale, e in provincia di Torino i numeri sono esemplari.
«Nel 2009, annus horribilis per gli affari – spiega Eleonora Castagnone, ricercatrice di Fieri, il Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’immigrazione -, gli imprenditori stranieri erano 14.500, aumentati del 9,1% rispetto al 2008 mentre le imprese con titolare italiano sono diminuite dello 0,8%. E oggi le aziende straniere sono addirittura 30.122». Due facce della stessa medaglia, che la camera di Commercio ha chiamato «natimortalità»: nel 2010 le aziende fallite sono state 438, più del 41% rispetto al 2008. A soffrire l’industria metalmeccanica e dolciaria: la crisi di Peyrano e Streglio, marchi storici, sul mercato da quasi un secolo, è la punta più prepotente dell’iceberg.
Gli immigrati imprenditori sono uomini e donne tra i 30 e 49 anni. Hanno la pelle nera o gli occhi a mandorla, basta questo – a volte – a rinforzare pregiudizi per cui trovare un posto da dipendenti non è facile: mettersi in proprio, creare un’azienda diventa un «rifugio» per sopravvivere. Ma se le performance delle imprese meticce sono crescenti e solide, non è soltanto per necessità. Aprono un’attività – i più arrivano dal Nord Africa e dall’Est Europa – persone colte, preparate con un’ esperienza di lavoro già avviata nei paesi d’origine. Si occupano di ristorazione, commercio, costruzioni e, sempre più, di saloni estetici, lavanderie e negozi di acconciature.
Una spinta creativa e imprenditoriale che ha convinto il Centro interculturale di corso Taranto a proporre un corso che spieghi come fare impresa attraverso il racconto di chi un’azienda già ce l’ha. Si chiama «con la testa e con le mani». Spiega uno dei tutor, Francesco Vietti: «Nei tre mercati principali della città, Porta Palazzo, via Madama Cristina e corso Racconigi, un banco su quattro è di proprietà di un immigrato, spesso maghrebino. Sono uomini saliti nella scala sociale: clandestini che hanno lavorato come scaricatori poi sono diventati venditori in nero, e infine hanno comprato l’attività». Immigrati avidi e usurpatori? Sorride Vietti: «No. Soltanto stranieri che si sentono orgogliosi di fare mestieri faticosi che sempre meno italiani sono disposti a fare».
Comanda imprese meticce chi ha acquistato un’azienda o l’ha creata da zero e chi dall’azienda è stato conquistato. Non solo a Torino: a pochi chilometri da Alba c’è l’Osteria dell’Unione, incubatrice dove negli Anni Ottanta si sviluppò Arcigola, embrione di Slow Food. La lavoratrice più giovane stava in cucina: lavava i piatti, puliva patate e in silenzio imparava i segreti della gastronomia langarola. Oggi è cresciuta ed è titolare del locale. Si chiama Rezarta Fino, arrivata dritta da Tirana.