Immigrati e profughi
di G. Genesotto
Tratto da Rapporto annuale 2007 della rivista servizio migranti n. 3/2008
Introduzione
Nonostante i mezzi escogitati per tener chiuse porte e finestre della “casa europea”, gli immigrati continuano ad arrivare. L’Italia è solo una delle porte dell’Europa, ma è un braccio lungo il mare, steso quasi a raggiungere le terre africane, un po’ piegato come per offrire una presa alle terre dell’Est. Arrivano per una serie molto ampia di motivi, ma più frequentemente sono la miseria, la carenza di prospettive di sviluppo, a spingere singoli e famiglie sulla via dell’esilio. Ci sono guerre, regimi dittatoriali, persecuzioni per motivi etnici e religiosi, che spingono a un’emigrazione forzata. Ma più in profondità persiste e non si restringe il divario esistente tra i Paesi ricchi, che dispongono di quasi l’80% del prodotto mondiale, pur avendo il 22% della popolazione, e i Paesi poveri, che di questo prodotto ne dispongono solo del 20%, pur rappresentando il 78% della popolazione.
Nonostante i segnali solitamente negativi da cui sono generate le migrazioni, la lettura che ne dà la Chiesa va decisamente controcorrente.
Il Documento Erga migrantes caritas Christi del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti offre un compendio esaustivo in tal senso, con un incipit importante nella sua prima parte, in cui le migrazioni sono indicate come “segno dei tempi”, “kairòs”, “appello dello Spirito”.
Con questo si intende dire che attraverso le migrazioni si può realizzare il progetto di Dio anticipato nel giorno di Pentecoste, cioè quello di formare di tutti i popoli una famiglia di popoli.
La spinta per realizzare questa sana utopia è contenuta nel nucleo centrale di tutte le religioni, nella cosiddetta “regola d’oro”, che in negativo chiede di “non fare agli altri ciò che non verresti fosse fatto a te stesso” e che nel suo sviluppo giunge al positivo del “fa agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te stesso”.
A livello ecclesiale un’indicazione forte e sempre attuale si trova al n. 82 della Redemptoris missio: “La presenza di questi fratelli nei paesi di antica cristianità è una sfida per le comunità ecclesiali, stimolandole all’accoglienza, al dialogo, al servizio, alla condivisione, alla testimonianza e all’annuncio diretto”.
Sullo stesso tono, ma con una propensione più sul versante sociale, il documento Le Migrazioni in Europa, stilato dalla Migrantes assieme ad altri organismi cristiani e presentato durante la III Assemblea Ecumenica Europea di Sibiu (Romania), che si è tenuta dal 4 al 9 settembre 2007 e che ha avuto una sezione si studio dedicata alle migrazioni. In un passaggio si legge: “Le Chiese, di fronte al fenomeno migratorio che si fa sempre più vasto, irreversibile e pone urgenti interrogativi di natura storica, culturale, economica, sociale, politica, si richiamano allo spirito della “Charta Oecumenica” la quale sollecita i cristiani a contribuire insieme affinché venga concessa una accoglienza umana e dignitosa a donne e uomini migranti, ai profughi e a chi cerca asilo in Europa”.
L’immigrazione in Italia
I flussi verso l’Italia continuano a ritmo sostenuto e l’immigrazione presenta sempre più i caratteri della stabilità a seguito dei ricongiungimenti familiari e delle nuove nascite. Con una presenza di 3.690.000 cittadini stranieri, l’Italia si colloca tra i più grandi Paesi di immigrazione dell’Unione Europea, insieme alla Spagna e subito dopo la Germania.
L’incidenza è di uno ogni sedici abitanti. Ogni dieci presenze immigrate, cinque sono europee, quattro suddivise tra africani e asiatici e una americana.
Al primo posto nella graduatoria colloca la Romania, con 555.997 presenze. Paesi come il Marocco e l’Albania sfiorano le 400.000 unità, mentre l’Ucraina sta al quarto posto, contando 200.000 presenze, seguita da diverse altri gruppi con più di 100.000 presenze.
Dal punto di vista religioso, i cristiani sono un milione e mezzo, con la prevalenza degli ortodossi rispetto ai cattolici; i musulmani sono 1.200.000.
Nelle prospettive future si prevede un aumento rilevante della popolazione immigrata, come hanno dimostrato le 500.000 domande di assunzione presentate nel mese di marzo 2006 per fruire delle quote stabilite dal decreto annuale dei flussi d’ingresso. In considerazione del deficit demografico degli italiani e della pressione dei Paesi d’origine, è realistico stimare l’impatto in entrata in almeno 300.000 unità all’anno.
Persistono i risvolti negativi delle sacche di irregolarità, lo sfruttamento delle persone e della manodopera, le tragedie nel tentativo di raggiungere clandestinamente le coste italiane, la mancanza di una legge sull’asilo, il fenomeno dei minori non accompagnati, le tensioni sociali dovute alla generalizzazione ed enfatizzazione di episodi particolari.
Dal punto di vista normativo, il precedente Governo ha proceduto a una serie di riforme per facilitare i ricongiungimenti familiari, promuovere l’immigrazione regolare favorendo l’incontro tra domanda e offerta di lavoro attraverso la revisione del meccanismo di determinazione dei flussi di ingresso. È in agenda la revisione della legge sulla cittadinanza, che nella disciplina vigente si poggia sul principio dello ius sanguinis, ovvero dell’acquisto della cittadinanza per discendenza o filiazione. Su tale aspetto, che è stato oggetto di particolare attenzione da parte dell’Ufficio, si dirà più estesamente in seguito.
Si sta cercando inoltre una via italiana all’integrazione: in tale contesto si inserisce la Carta dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione, un testo non vincolante, ma fondato sulla Costituzione, che rappresenta un “patto di convivenza” tra italiani e immigrati.
Modifiche alla legge sulla cittadinanza
Quella sulla cittadinanza è una riforma quanto mai auspicabile, delineata da un testo sul quale si è svolta un’audizione presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera il 12 marzo 2007, alla quale ha partecipato per la Migrantes Padre Gianromano Gnesotto e per la CEI il Prof. Venerando Marano, Coordinatore dell’Osservatorio giuridico-legislativo.
La posizione sostenuta in quell’occasione è la seguente: il successo delle politiche di immigrazione dipende dall’attuazione di strategie finalizzate al conseguimento di diritti di cittadinanza, sociali e politici per i migranti. La loro piena ed effettiva integrazione è questione che senza dubbio riguarda la coesione sociale ma che costituisce anche un prerequisito di efficienza economica.
In tal senso il testo unificato elaborato dal Comitato ristretto riguardante “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza” si poggia su due aspetti condivisibili:
– la concezione della cittadinanza come strumento volto a favorire l’integrazione, anche attingendo all’esperienza di altri Paesi europei e ferma restando la distinzione tra disciplina della cittadinanza e politiche di integrazione;
– la concezione della cittadinanza come atto di volontà individuale che, in presenza di determinate condizioni, impegna lo Stato.
Il fatto singolare è che l’Italia, con la legge del 1992, ha aumentato e non ridotto gli anni di residenza richiesti, passando da 5 a 10 per i non comunitari, rispetto alla disciplina previgente, risalente al 1912. I dieci anni stabiliti dalla legislazione italiana e spagnola costituiscono il limite massimo previsto dalla Convenzione Europea sulla cittadinanza del 1997.
Prevedere l’acquisto della cittadinanza dopo cinque anni significa porsi in maniera adeguata rispetto agli standard internazionali e dare un forte segnale nel senso dell’inclusione e piena partecipazione sociale.
Si tenga conto che molti Paesi europei hanno accorciato i tempi di attesa burocratica con pratiche più semplici e più standardizzate su tutto il territorio, a cui si è aggiunta la riduzione della discrezionalità delle decisioni e competenze accentrate in organi in grado di decidere più in fretta.
È dunque importante stabilire procedure chiare, ragionevoli e rapide, che garantiscano la naturalizzazione degli immigrati soggiornanti di lungo periodo e dei loro figli, abbattendo i tempi di un’istruttoria che attualmente richiede in media tre anni tra il momento della presentazione della domanda in Prefettura e l’accettazione, e superando interpretazioni e applicazioni discrezionali.
In materia va osservato che la preminenza del principio dello ius sanguinis (ovvero dell’acquisto della cittadinanza per discendenza o filiazione) e l’eccezionalità del legame rappresentato dal fatto di essere nati nel nostro territorio, affermati dalla disciplina vigente, di fatto comportano l’esclusione da un’immediata piena integrazione degli immigrati nella comunità nazionale.
A fronte di un’immigrazione stanziale e di una crescente sensibilità per i diritti dei minori, quasi tutti gli Stati europei hanno introdotto, o rafforzato se già l’avevano, l’elemento dello ius soli, cioè l’acquisto della cittadinanza per nascita sul territorio.
Su tale specifico punto, nel corso della passata legi-slatura, sono state presentate numerose proposte per riformare la legge n. 91/1992. Ora finalmente sembra che i tempi siano maturati per il passaggio allo ius soli, che tra l’altro sana l’incertezza per i figli degli immigrati di risiedere in Italia una volta raggiunta la maggiore età.
Con il decreto ministeriale 22 novembre 1994 lo svincolo dalla cittadinanza originaria veniva posto come condizione per la naturalizzazione. Giova sul punto osservare che la rinuncia alla cittadinanza d’origine costituisce non solo un taglio doloroso del legame con le proprie radici ma può comportare conseguenze rilevanti anche sul piano giuridico, riguardo alla sfera familiare, personale e patrimoniale. Opportunamente, con decreto del Ministero dell’Interno del 7 ottobre 2004, Nuove norme sulla cittadinanza, è stato abrogato il punto 3) del citato decreto.
In linea di continuità, l’art. 11 bis afferma che “ai fini della cittadinanza non è richiesta la rinuncia della cittadinanza straniera”, perché è la formula che meglio rispetta l’identità composita dei migranti.
Con riferimento all’inscindibilità fra diritti e doveri, è corretto che chi intende diventare cittadino italiano intraprenda un percorso di cittadinanza che pone come requisiti il sufficiente possesso della lingua e cultura italiana e la sottoscrizione della Carta costituzionale. Si tratta di acquisire e consolidare un insieme di valori che appartengono alla tradizione occidentale, quali ad esempio il senso della democrazia e la parità di genere.
In questo quadro, la riduzione dei tempi necessari per ottenere la cittadinanza si sostanzia anche attraverso la partecipazione politica con il diritto di voto, che diventa un’espressione e un’ulteriore incentivo per un percorso di progressiva inclusione nel territorio italiano.
La capacità dell’Italia di gestire l’immigrazione e di garantire l’integrazione dei migranti avrà enorme influenza sulla possibilità, in termini generali, di governare la trasformazione economica e rafforzare la coesione sociale nel breve e nel lungo periodo.
Il Documento programmatico
Le numerose audizioni alle quali si è partecipato presso il Ministero dell’Interno e il Ministero della Solidarietà Sociale si sono concluse con la discussione del Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli stranieri nel territorio dello Stato per il triennio 2007/2009.
Nell’incontro congiunto che si è tenuto il 12 settembre 2007 presso il Dipartimento per il Coordinamento Amministrativo in riferimento al Documento programmatico triennale, la Migrantes, assieme ad Acli, Caritas e Comunità di Sant’Egidio, ha espresso anzitutto apprezzamento per un’impostazione che valuta positivamente il fenomeno dell’immigrazione, volto più all’accoglienza che al contrasto, assieme a una stima realistica ed equilibrata dell’entità dei flussi, calcolata in una misura compresa tra 168.000 e 247.000 ingressi annui.
Le politiche di governo degli ingressi e del lavoro
1) Senza una revisione delle procedure, anche sotto il profilo organizzativo, la programmazione rischia di essere inefficace perché del tutto incerta nell’indicare i tempi di realizzazione degli ingressi.
Si propone di attribuire ad una commissione, composta dai responsabili della amministrazioni interessate, delle organizzazioni sindacali e dell’associazionismo, il compito di proporre il miglioramento delle procedure a partire dall’esame, in alcune significative realtà territoriali, dei procedimenti attualmente più critici relativi a: rilascio dell’autorizzazione al lavoro per i richiedenti dell’ultimo decreto flussi; rilascio della residenza per i cittadini neo comunitari da parte degli enti locali; rilascio del permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo; rinnovo del permesso di soggiorno.
2) Estendere al lavoro domestico e di cura alla persona il canale di ingresso fuori delle quote, così come si è deciso per il personale infermieristico. Ne deriverebbe un beneficio per i richiedenti, e si eviterebbe la concentrazione temporale delle domande effettuata in coincidenza con i decreti flussi annuali.
3) Prevedere come “immigrazione qualificata” anche figure quali assistenti domiciliari e familiari aventi certificazioni relative a corsi specifici riguardanti le mansioni da svolgere.
4) Il trasferimento agli Enti locali delle competenze per il rinnovo dei permessi richiede un più esplicito impegno per un’accurata formazione del personale. Un segnale emblematico che porta in tale direzione è dato dalle difficoltà che il personale addetto agli Uffici di anagrafe ha nei confronti dei neocomunitari.
Liste e formazione all’estero
La gestione delle liste all’estero presso le nostre rappresentanze diplomatiche e consolari potrà avere efficacia con un adeguato sistema, controllato ed organizzato, per far fronte a numeri ormai consistenti e con l’attivazione di corsi (lingua, normativa, cultura, ecc.) per coloro che decidono di raggiungere l’Italia.
Previdenza sociale
Si chiede di avviare una seria riflessione sugli strumenti da adottare per riconoscere ai migranti, che hanno progetti migratori a breve o medio termine, la possibilità di riscattare i contributi versati anche in assenza di accordi tra l’Italia e il Paese di origine, quale maggiore incentivo per il lavoro regolare.
Integrazione
1) È opportuno sottolineare che l’integrazione è un processo biunivoco che coinvolge sia i cittadini stranieri che italiani, è un percorso di dialogo interculturale, che trova nel dialogo interreligioso una mediazione e una risorsa.
2) Un aspetto particolare e sensibile nelle politiche di inclusione è quello abitativo. È auspicabile che si agevoli l’inserimento abitativo degli immigrati e delle loro famiglie in tutti i quartieri delle città con una riorganizzazione dell’assetto territoriale, per evitare la nascita di ghetti.
Lotta alla discriminazione
Lo status giuridico della minoranza rom e sinti può trovare una positiva soluzione includendo il riconoscimento dello status di apolide, condizione di fatto in cui si trovano molti rom non italiani immigrati da tempo.
Cooperazione internazionale
È importante che nella programmazione triennale dei flussi siano inserite delle “quote di solidarietà” dedicate alle popolazioni, specialmente africane, in cui si registrano gravi violazioni dei diritti umani.
Di fatto, flussi quantitativamente modesti sul complesso degli ingressi irregolari in Italia sono determinati da conflitti etnici e sociali: sono questi flussi che alimentano il tragico bilancio delle vittime nel Mediterraneo.
Con le “quote di solidarietà” la politica di cooperazione internazionale avrebbe un respiro più ampio, senza ridursi alla negoziazione di aiuti o di quote nazionali riservate nei decreti flussi annuali in cambio della collaborazione degli Stati di provenienza nel controllo dei flussi in partenza o nella riammissione degli espulsi.
La sfida della integrazione
La questione della “integrazione” è all’ordine del giorno nelle agende politiche degli Stati europei: si parla di integrazione sociale degli immigrati, integrazione culturale, scolastica, politica.
A più riprese la Commissione Europea, nelle comunicazioni relative alle politiche migratorie, ha indicato diversi principi a cui devono attenersi le politiche di integrazione. Il più importante è l’esigenza di un approccio multisettoriale, che tenga conto non solo degli aspetti economici e sociali dell’integrazione, ma anche delle questioni legate alla diversità culturale e religiosa, alla cittadinanza, alla partecipazione e ai diritti politici.
È necessario a questo punto dire qualcosa sul concetto di integrazione, concetto polisenso e in questo caso assoggettato a distorsioni. Si chiede ausilio a sinonimi quali inclusione e inserimento, o anche “contaminazione”, ma tutti vanno ben declinati per non fuorviare un percorso che sarà sempre più vitale.
Per integrazione si intende un processo biunivoco, che si fonda sulla presenza di reciproci diritti e obblighi sia per i cittadini dei Paesi terzi che soggiornano legalmente, sia per la società di accoglienza. Si intende ancora un processo dinamico, che implica uno sviluppo progressivo di diritti e di doveri nel corso del tempo, secondo un approccio incrementale. La società ospitante garantisce un corredo di diritti a favore dei migranti, uno status giuridico tale da consentire agli stessi di partecipare alla vita economica, sociale, culturale e civile. I migranti, a loro volta, sono chiamati a rispettare le norme e i valori fondamentali della società che li ospita e a partecipare attivamente al processo di integrazione, nel rispetto della loro identità.
Il dibattito sull’integrazione degli immigrati e sulla società multiculturale è stato storicamente condizionato da un insieme di opposizioni binarie: assimilazionismo opposto a pluralismo; universalismo opposto a particolarismo, individualismo opposto a comunitarismo, egualitarismo opposto a differenzialismo.
Tali opposizioni hanno permesso di definire due modelli: uno assimilazionista di stampo francese; uno pluralista di stampo anglosassone, ai quali se ne è aggiunto un terzo, quello utilitaristico della Germania.
Tenuto conto che una società assimilazionista pura non esiste in quanto tale, come pure non esiste una società esclusivamente pluralista, né utilitarista, possiamo dire che l’integrazione sta fra due estremi: da una parte l’assimilazione più o meno forzata che conduce lo straniero a inserirsi nella nuova società con la pregiudiziale di perdere la propria identità di origine. Dall’altra parte un pluralismo lasciato a se stesso, in cui le minoranze soccombono e sono obbligate a un processo di emarginazione- ghettizzazione, soggetti isolati dal resto della società come corpi estranei.
Ora, l’integrazione non sta a metà strada tra i due estremi enunciati: è qualcosa di nuovo e originale che affonda le radici nella dignità della persona e nei suoi valori irrinunciabili. È un processo laborioso e progressivo che privilegia la via del dialogo e dell’incontro nei termini del reciproco rispetto ed apprezzamento delle rispettive diversità, destinate a tradursi in reciproco arricchimento.
Il fattore religioso
Trattare il tema migratorio attraverso il filtro del fattore religioso e delle relazioni inter-religiose è una tendenza che lentamente si fa strada anche nel contesto italiano, sia perché con i flussi migratori si sono consolidate due fedi religiose (l’Islam e i cristiani ortodossi) che in passato avevano una presenza piuttosto marginale, sia perché la componente religiosa assume un ruolo importante nella costruzione dell’identità individuale e collettiva. Per tale motivo la componente religiosa entra nelle dinamiche dei percorsi di integrazione.
Panikkar richiama al fatto che “la sfida dell’interculturalità consiste nel ricordarci il ruolo esistenziale delle religioni”. La sfida consiste nella capacità di pensare e costruire una nuova “società coesa”, fondata non tanto sulla difesa di culture contrapposte, quanto piuttosto sull’incontro di culture per favorirne la relazione e lo scambio. Prima ancora di essere organizzata in termini politici ed economici, ogni società si caratterizza per un dinamismo culturale di base, luogo di fermenti e tensioni, di reazioni e anticipazioni, di confronti e solidarietà. In tal senso le religioni possono giocare un ruolo importante.
È questa una realtà complessa, verso la quale andrà evitato un duplice errore: da un lato, il puro elogio della differenza che rende difficile trovare elementi coesivi per il vivere insieme e, dall’altro, il rivendicare ed esibire un’identità forte, trovata in una radice che lega al passato in maniera immutabile.
Il tema dell’identità, decisivo in contesti pluralistici, andrà condotto al seguito della considerazione che l’identità non è fissa, ma è una dimensione ermeneutica di cui le persone hanno bisogno per vivere e tenere insieme le differenze; non è il prevalere di un tassello sull’altro, e neppure l’eclettismo che nasce dalla mera sommatoria dei tasselli. L’identità sono i fili che tengono insieme le diversità in un patto di reciproco rispetto.
Sarà necessario educare al rapporto e al confronto, sviluppando una comunicazione e relazione interpersonale e intercomunitaria, che considera l’alterità come relazione da costruire e non barriera cui sfuggire, e uno spirito critico delle proprie identità particolari (religiose, nazionali, etniche), con la loro relativizzazione in riferimento all’universale inteso come appartenenza a spazi più ampi.
La coesistenza con l’Islam
L’Islam, che fino a ieri raggruppava attorno a un’unica identità popoli che non solo erano diversi, ma nemici, e comunque residenti altrove, è oggi diventato la seconda religione, o meglio la principale tra le minoranze religiose nella maggior parte dei Paesi europei, Italia inclusa.
È una coesistenza che sta attraversando una travagliata fase di riflessione e di ripensamento nei reciproci rapporti. Basti ricordare in ambito italiano la discussione, sorta a partire dal settembre 2001, in cui si suggeriva, nell’impostazione delle politiche migratorie, di selezionare i nuovi immigrati sulla base della loro più facile integrabilità nel tessuto sociale, o quanto meno di una coesistenza non conflittuale, sottintendendo in questo modo l’esclusione di quelli provenienti dai paesi islamici.
Non vanno in effetti sottaciute le difficoltà nei rapporti tra Occidente e Islam, la prima delle quali consiste nel far capire che il concetto di laicità non si oppone a quello di religiosità, ma ne esige un diverso inquadramento. O, ancora, pesa il fatto che la “Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo dell’Islam”, adottata nel 1990 dall’Organizzazione della Conferenza Islamica, ribadisce la superiorità della legge coranica su qualsiasi altra legge, naturale o positiva che sia.
Senza entrare nel merito della questione se un’etnia o un’appartenenza religiosa favoriscano o meno i percorsi di inclusione, va detto che il magistero cattolico ha ribadito il dovere, e quindi la possibilità, del dialogo e dell’incontro tra le diverse religioni, pur senza sottacerne la complessità, come si rileva nell’ultimo documento Erga migrantes caritas Christi. Al n. 65, in riferimento ai rapporti con l’Islam, si legge: “Il Concilio Vaticano II (…) invita a purificare la memoria dalle incomprensioni del passato, a coltivare i valori comuni e a chiarire e a rispettare le diversità, senza rinuncia dei principi cristiani”.
È necessario che le Chiese particolari si aprano all’accoglienza, anche con iniziative pastorali d’incontro e di dialogo, ma soprattutto aiutando i fedeli a superare i pregiudizi ed educandoli a diventare, anch’essi, missionari ad gentes nelle nostre terre.
Sono altresì di grande interesse le posizioni maturate in seno a gruppi di musulmani che vivono in contesti occidentali, nel tentativo di accordare la fedeltà al proprio credo con impostazioni sociali segnate dal pluralismo.
In Italia un gruppo di esponenti musulmani ha inteso dare concretezza all’idea di un “Islam moderato”, capace di conciliare, attraverso una rilettura del Corano, i valori della fede islamica con quelli della cultura occidentale. Da qui è derivata una Consulta islamica, che fa capo al Ministero dell’interno, che riflette la volontà di dialogo con una connotazione “moderata”.
Coordinatori e centri pastorali etnici
L’attività pastorale ha nella figura del Coordinatore etnico nazionale un punto d’eccellenza per lo sviluppo organico dell’azione pastorale nelle Diocesi italiane, provvedere alle necessità espresse dai Direttori diocesani Migrantes, mantenere i collegamenti con la Chiesa di partenza e quella di arrivo. Attualmente sono quattordici, dopo la morte di P. Paul Louis Rafanomezantsoa sj, Coordinatore nazionale dei cattolici malgasci. Mancano i Coordinatori di comunità etniche numerose come quella dell’America Latina, e altre come i romeni di rito bizantino, gli etiopi ed eritrei.
Qui di seguito l’elenco: Santos mons. Ruperto (filippini; Ferraro don Pasquale (albanesi); Lucaci mons. Anton (romeni); Nèmeth mons. László (ungheresi); Nguyen Van Du don Agostino (vietnamiti); Pollayil p. José (siro-malabaresi); Perera don Joe Neville (sri-lankesi-cingalesi); Sapunko p. Olexandr (greco-ucraini); Dalach don Adam (polacchi:); Mgbeahurike don Robert Emeka (africani di lingua inglese); Kibangu Malonda don Denis (africani di lingua francese); Siurys don Petras (lituani); Cui don Pietro Xingang (cinesi); Pattaparambil don Antoney George (comunità cattoliche del Kerala).
Nel corso dell’anno si sono tenuti con loro quattro incontri di informazione e di formazione presso la sede nazionale della Migrantes, incontri che andranno accentuati nel 2008 in ragione del sempre più complesso ambito di azione e del necessario rafforzamento delle medesime linee pastorali pur nella diversità dei contesti religiosi e culturali. Tra le attenzioni principali dell’Ufficio e di conseguenza dei Coordinatori etnici nazionali c’è il favorire la costituzione di centri pastorali etnici per le varie etnie e nazionalità, attualmente più di settecento.
Rifugiati e profughi
L’Ufficio Profughi della Migrantes, nella sede staccata di via delle Zoccolette 17 in Roma, ha svolto fino ai primi anni del decennio corrente un notevole lavoro di accoglienza dei profughi stranieri in transito e in attesa di destinazione verso Stati Uniti, Canada e Australia: un lavoro importante e impegnativo che ha richiesto capacità e spirito di accoglienza per poter far fronte a migliaia di nuclei familiari che, grazie a tale aiuto, hanno trovato una sistemazione definitiva nei Paesi oltreoceano.
Le modifiche delle politiche migratorie nel contesto internazionale e la dotazione per l’Italia di una legge organica per l’immigrazione hanno portato a ridimensionare tale tipo di approccio, sebbene si continui a seguire un certo numero di persone e indirizzarle nell’iter burocratico fino al successo finale. Sono soprattutto i casi cosiddetti “indipendenti” per il Canada, casi con “professioni specifiche” per USA, Canada e Australia e residui ricongiungimenti familiari di parenti emigrati ormai da tanto tempo. Pur mantenendo le modalità operative di cui sopra, si sta sviluppando un progetto nuovo per tale settore, riqualificandone l’azione e dando respiro nuovo a un luogo importante, riconosciuto come punto di riferimento per le attività svolte in passato. Oltre a tale operatività, si partecipa al Consiglio Direttivo del Consiglio Italiano Rifugiati (CIR), di cui la Migrantes è socio fondatore, e si mantengono fruttuosi rapporti con il Jesuit Refugee Service dei Gesuiti, sostenendo nei limiti del possibile alcune iniziative anche economicamente.
Attività particolari
Qui di seguito vengono riportate alcune delle attività attinenti all’azione propria dell’Ufficio, sia in ambito istituzionale che ecclesiale:
– si è membri della Consulta per i problemi degli stranieri immigrati e delle loro famiglie, istituita presso il Ministero della Solidarietà Sociale;
– si è membri del Consiglio Direttivo del Consiglio Italiano Rifugiati;
– si è membri del Consiglio Missionario Nazionale;
– si fa parte del Coordinamento Nazionale contro la tratta, presso la Caritas Italiana;
– si fa parte del Coordinamento Nazionale Immigrazione, presso la Caritas Italiana.
– si fa parte del Gruppo ecumenico per l’immigrazione, che fa capo alla Chiesa Evangelica