Difendere l’Islam dalla violenza
Le pietre che hanno lapidato la giovane somala Aisha Ibrahim Dhuhulow a Chisimaio hanno reso un gran brutto servizio all’immagine dell’islam. in situazioni drammatiche come quella della Somalia, gruppi di fanatici, come gli “shabaab” di sheikh Hassan Mahdi, possono addirittura trovare una legittimazione in una opinione pubblica di disperati in balia dei signori della guerra.
La religione non è più un mezzo per trovare la pace interiore, migliorare sé stessi, rapportarsi agli altri con “clemenza e misericordia”: diventa un mezzo di repressione feroce quanto l’infinita guerra che tutto
incanaglisce. Le coscienze sono sconvolte, il retto pensiero
smarrito, la giustizia diventa sommaria, l’uomo perde la sua umanità.
La Somalia è un cratere ardente dal quale chi può cerca di
fuggire: si calcola che i profughi siano tre milioni. Quale religione è possibile in un contesto simile? È ancora l’islam o una sua barbara imitazione che non affonda le radici in nessuna lontana tradizione? inutile disquisire di “sharia” o “hadith” o “sunna “, cioè di legge religiosa o tradizione quando la violenza scatena i demoni che albergano nelle pieghe più nascoste dell’animo umano e che proprio le grandi tradizioni religiose insegnano a tenere a freno.
Non parlate di islam, fratelli musulmani, in questi casi, prendete le distanze con coraggio anche da chi uccide innocenti in un mercato, davanti a una scuola o una moschea (o una chiesa) compiendo un atto che non ha nulla di religioso e che, al di là della volontà di chi lo compie, si presta a tutti i giochi della più sporca politica. Sappiamo che per parlare ci vuole coraggio, soprattutto in certi contesti: ma in certi Paesi è più facile.
Parlate anche voi che pensate che solo il ritorno al “puro islam” sia la strada giusta, ma rifiutate le imposizioni violente seguendo il detto coranico: “non vi sia costrizione nella fede “. Salvate l’islam dalla denigrazione, dalla bestemmia, fatene uno strumento di alta spiritualità quale può essere, un dono per tutta l’umanità.
Fonte: Il dialogo n. 5/2008 – 3