Protesi o trapianto: la “filosofia” delle politiche migratorie
Di Massimo Livi Bacci
Fino alla metà del secolo scorso, la presenza straniera in Italia era un fenomeno di élite. Il primo censimento unitario — nel 1861 – contò 90.000 stranieri (quattro ogni mille italiani), con prevalenza dei cittadini austriaci in Lombardia e Veneto; il censimento del 1951 ne contò appena 130.000, un rapporto stranieri-italiani più basso per una popolazione più che raddoppiata. Eppure, quelle poche decine di migliaia di persone, tra i quali predominavano tedeschi, svizzeri e francesi, erano state importanti protagoniste della prima industrializzazione del paese. Maestranze specializzate, commercianti, imprenditori e banchieri, intellettuali stranieri (una “immigrazione di qualità”, si direbbe oggi) ebbero un ruolo di rilievo nella modernizzazione dell’Italia liberale, assai più cosmopolita di quella dei decenni del secondo dopoguerra. Più cosmopolita non solo per una presenza qualificata di stranieri, ma anche per l’apertura sul mondo che la grande emigrazione italiana di fine ‘800 e inizio ‘900 aveva imposto al paese: una internazionalizzazione “dal basso”, operata soprattutto da maestranze e contadini sparsi nei cinque continenti. Negli anni ‘50, al punto più basso della presenza straniera nel paese, e quando oramai la grande emigrazione aveva esaurito il suo ciclo, l’Italia si era rinchiusa in se stessa: lo straniero era il ricco turista, l’uomo d’affari, il benestante rentier che aveva scelto il buon vivere nel nostro paese.
Cinquant’anni dopo, molti italiani stentano ancora a convincersi che il loro futuro sia strettamente intrecciato con una presenza straniera non più di élite, ma di massa. Una presenza che conta più di quattro milioni di persone, contando gli irregolari, e si tratta di un numero destinato a forte crescita nonostante gli effetti negativi della crisi economica che si allunga sul mondo. Il fatto è che l’Italia è entrata nel novero dei paesi a forte immigrazione: tra i grandi paesi europei, solo la Spagna ha avuto — nell’ultimo quindicennio — un’immigrazione (forse) superiore alla nostra. Almeno tre fattori di fondo rendono inevitabile un forte afflusso di popolazione nei prossimi due o tre decenni.
Il primo fattore è, essenzialmente, di natura interna e legato alla bassissima natalità dell’ultimo ventennio: i giovani sono pochi e la forza di lavoro tenderebbe a diminuire rapidamente se le porte dell’immigrazione rimanessero chiuse. Una ripresa della natalità — per ora solo abbozzata grazie alle nascite da genitori stranieri — potrebbe cominciare ad attenuare questo deficit strutturale solo dopo una ventina d’anni dal suo inizio.
Anche il secondo fattore è di natura interna, ed è legato ad aspetti strutturali della nostra società. In primo luogo, un welfare assai avaro con le famiglie determina una forte domanda di lavoro straniero per sostegno domestico, con i bambini e con gli anziani Sostegno tanto più indispensabile quanto più alle donne si richiede, contemporaneamente, di avere più figli e di lavorare di più fuori di casa. E quanto più aumenta il numero degli anziani vulnerabili e non autosufficienti per il forte invecchiamento della popolazione. C’è, poi, una struttura produttiva caratterizzata da attività manifatturiere tradizionali che impiegano molta manodopera e poca tecnologia; così come molta manodopera richiedono l’industria turistica e quella delle costruzioni. Rispetto ad altri paesi nei quali pesano fortemente attività ad alta intensità di capitale e basso intensità di lavoro, l’Italia — a parità di altre condizioni — tende ad attrarre più manodopera straniera.
Il terzo fattore è, invece, di natura esterna e attiene al forte divario – di reddito, salari e prospettive — tra mondo ricco e mondo povero, che mantiene in tensione la spinta a migrare dai secondi verso i primi.
Le politiche, naturalmente, potranno avere un effetto sui numeri dell’immigrazione. Certo il loro effetto eventuale sul fattore esterno (il divario ricchi-poveri) è vicino allo zero, specialmente in una fase nella quale l’aiuto allo sviluppo è precipitato al minimo livello della storia recente. D’altro canto, eventuali politiche dirette a sostenere le scelte riproduttive (ed aumentare la natalità), potrebbero avere solo un effetto molto graduale e — comunque — non influenzerebbero l’offerta di manodopera nei prossimi vent’anni. Le politiche invece potrebbero avere effetti anche sensibili, riducendo la domanda di lavoro immigrato, se orientate a rendere più efficienti i servizi per le famiglie e ad alleviare i costi di allevamento dei figli e di sostegno agli anziani. E, anche, se dirette a sostenere attività high-tech che richiedono poca manodopera. Naturalmente le politiche potrebbero anche orientarsi a “chiudere” le porte all’immigrazione: ma in questo caso (ammettendo che l’immigrazione irregolare non aumenti) ciò implicherebbe una “contrazione” dell’economia e — comunque — una perdita di velocità rispetto alle altre economie europee valutabile all’ingrosso attorno a un punto di PIL all’anno.
Ecco perché l’immigrazione — nel nostro paese — è un fenomeno strutturale. E ancor di più lo è per una regione come la Toscana, ricca di industrie manifatturiere tradizionali, di un’attività turistica diffusa e con una demografia mediamente più debole della media del paese. Entro una decina d’anni — ai ritmi attuali — lo stock di stranieri potrebbe trovarsi raddoppiato e una nascita su quattro potrebbe essere figlia o figlio di genitori stranieri. Come prepararsi ad un orizzonte, non remoto, del genere? Quali nuove politiche occorre mettere in atto?
Per rispondere al quesito precedente, non desidero essere prigioniero dell’attualità — le posizioni che sembrano essere attualmente prevalenti, orientate a restringere gli spazi dei migranti, non lasciano intravedere modifiche percorribili nei prossimi anni. Ma proprio per questo occorre discutere e preparare pazientemente politiche diverse da quelle attualmente prevalenti in Italia e in quasi tutta Europa. Queste politiche hanno il “lavoro”come chiave di volta — non solo per chi arriva con un contratto di lavoro, ma per gran parte dei familiari e per quasi tutti gli irregolari. Il regolare viene ammesso per iniziare o cercare un lavoro; il familiare è quasi sempre imparentato con un lavoratore — e spesso finisce per cercare un lavoro. Gli irregolari arrivano, quasi tutti, in cerca di un lavoro purchessia. E’ quindi il mercato del lavoro la chiave di volta dell’intero sistema migratorio; alla domanda di lavoro espressa dal mercato si commisurano i flussi; la capacità di farne parte od i legami con chi vi appartiene dà titolo ad immigrare. Questo è naturale: chi si sposta lo fa in base ad un calcolo, anche inconscio od istintivo, di costi e benefici, e soprattutto per migliorare il proprio livello economico, che è per lo più legato alla remunerazione offerta dal mercato del lavoro. D’altra parte, la società di arrivo calibra anch’essa la propria politica migratoria (almeno in teoria) in base ad una valutazione dei costi-benefici che l’immigrazione arreca al sistema. Quanto apporta il migrante in termini di tasse e imposte pagate, nei confronti dei trasferimenti ricevuti? Quali attività economiche sono compresse dalla mancanza di lavoro e in che misura si avvantaggiano per l’arrivo di un nuovo migrante?
Le politiche migratorie hanno poi il problema, quasi ovunque irrisolto, di programmare i flussi. Ciò implica una “previsione” della domanda di lavoro, del numero dei posti disponibili, della loro eventuale composizione per qualifiche o specializzazione. Un problema dalla soluzione elusiva per la flessibilità e mutabilità della domanda del mercato. Forse è possibile valutare il fabbisogno per alcune attività specifiche per le quali occorrono particolari competenze certificate: mancano, per esempio, tanti infermieri o medici con determinate specializzazioni, che il sistema formativo non è in grado di produrre. Oppure, tanti religiosi da inserire in parrocchie rimaste senza titolare. Oppure, un certo numero di gruisti, informatici, violinisti, acrobati, insegnanti di cinese…Ma per buona parte delle attività economiche, per le quali le competenze richieste non sono difficili da acquisire, che possono attirare o cedere lavoro secondo logiche di mercato e salariali, è difficile valutare il fabbisogno “insoddisfatto” dalla forza di lavoro autoctona. Questa difficoltà si accentua in paesi – come l’Italia – dove (teoricamente) il deficit potenziale di lavoro è molto alto e si amplia enormemente se da società demograficamente in equilibrio — dove il fabbisogno è modesto rispetto allo stock — si passa a società largamente deficitarie come la nostra. L’immigrazione in Italia — si è detto – non è un fatto congiunturale, per ovviare a temporanee strozzature di mercato d lavoro, o per alimentare specifici settori professionali. L’immigrazione è strutturale e tende a divenire un’immigrazione di insediamento e popolamento. Pezzi di società che da altri paesi si trapiantano nel nostro e che sono destinati a diventarne parte integrante. Che riempiono i vuoti che si determinano tra gli autoctoni, non solo per rimpiazzarli nel lavoro, ma per sostituirli nella complessa vita sociale. Il milione di rumeni giunti disordinatamente in Italia in pochi anni, si trasformeranno — nel lungo periodo — in un pezzo di società italiana costituito non solo di centinaia di migliaia di badanti e muratori (e di qualche avanzo di galera malauguratamente sfuggito alla giustizia) ma da studenti, artigiani, imprenditori, operai, impiegati, pensionati; bambini, donne e uomini. Seppure l’occasione iniziale dell’immigrazione è il lavoro, poi attorno al lavoratore o alla lavoratrice si ricostituisce un nucleo familiare: parenti ricongiunti che poi, a loro volta, cercano lavoro; figli che crescono, vanno a scuola e destinati (prima o poi) a diventare cittadini italiani. Stranieri che si ricompattano nella propria comunità di origine oppure — come è certamente preferibile — iniziano l’integrazione nella più vasta società dei cittadini, oppure che si situano in qualche posizione intermedia. Insomma non immigrazione per lavoro, ma immigrazione di insediamento, di popolamento, di cittadinanza. Ma se questo è lo sbocco definitivo di ogni migrazione di massa, che magari ha superato un percorso tortuoso e irto di ostacoli, perché la società di arrivo pretende che l’immigrato sia “temporaneo” o comunque non ne incoraggia la stabilizzazione o il radicamento, allora conviene prendere atto che è opportuno cambiare politica.
E’ necessario perciò un cambio di filosofia. All’immigrato non chiedo “cosa sai fare” o “che lavoro ti appresti a fare nel nostro paese”, ma “chi sei” e “qual è il tuo programma di vita”. Non è (solo) l’esistenza di un posto di lavoro che determina l’ammissione dell’immigrato, ma anche la qualità del capitale umano, la capacità e la volontà di inclusione. L’immigrazione non è una protesi temporanea di una società anchilosata che stenta a muoversi, ma un trapianto permanente. Alcuni paesi — Australia, Nuova Zelanda, Canada (e la Gran Bretagna sembra andare in questa direzione) — hanno da tempo adottato strategie di questo tipo. Età, sesso, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento del paese si combinano in un punteggio, o valutazione, dell’ammissibilità dei candidati all’immigrazione. L’esito normale del processo di inclusione, in queste società, è l’acquisizione della cittadinanza, e questo avviene — effettivamente — per la maggioranza degli immigrati.
Ci sono, naturalmente, enormi difficoltà per realizzare un simile cambio di filosofia. Non parlo qui del fatto che l’attuale politica prevalente appare sorda e ostile a idee del genere, e sembra coltivare l’idea che l’immigrazione è, appunto, una protesi e non altro. Parlo invece delle difficoltà concettuali e politiche inerenti al cambio di filosofia sopra accennato.
La prima riguarda la determinazione di quegli elementi del capitale umano individuale favorevoli ai processi di inclusione di lungo periodo. Determinazione che porta, inevitabilmente ad un processo di selezione che deve essere fatto assicurando che non entrino nella valutazione — nemmeno surrettiziamente — elementi discriminatori.
La seconda difficoltà sta nell’accertamento, valutazione o misurazione delle qualità e caratteristiche individuali. Alcune sono facilmente verificabili, come quelle anagrafiche (età, stato civile, figli); altre possono essere accertate con adeguati strumenti (istruzione, cultura, skill, risorse economiche); altre ancora possono essere valutate solo indirettamente (disponibilità all’inclusione). Andrebbe poi stabilito se tali caratteristiche debbono sussistere tutte al momento dell’immigrazione o possano essere acquisite nel percorso di inclusione. Valutandole a determinate scadenze: per esempio, alla conferma della residenza, alla concessione del voto locale, all’acquisizione della cittadinanza.
La terza difficoltà consiste nella determinazione del volume dei flussi, le cui dimensioni dovrebbero essere valutate sulle necessità di lungo periodo (con clausole di salvaguardia per situazioni particolari). Considerando, per esempio, la convenienza di evitare un declino demografico che sbilanci eccessivamente la struttura per età, o che riduca eccessivamente la forza di lavoro (tenendo presente che gli immigrati hanno tassi di attività più alti degli autoctoni). Valutando la capacità del sistema di provvedere risorse e strutture necessarie per i processi di inclusione ed integrazione.
Difficoltà non insormontabili, e non maggiori di quelle inerenti all’attuale programmazione dei flussi, richiesta dalla legge, ma in pratica lettera morta.
Le considerazioni svolte sono sicuramente invise a vasti settori conservatori dell’arco politico. I quali sanno benissimo che l’immigrazione è un fenomeno strutturale di questo secolo e che gli immigrati divengono, alla lunga, un pezzo integrale di società. Ma non possono o non vogliono ammetterlo. Il concetto di immigrazione come protesi è facilmente rivendibile ad un elettorato poco attento e poco informato. Illudendolo che di questa protesi domani, magari, non ci sarà più bisogno. Ma le critiche possono venire anche dalle posizioni opposte perché ogni considerazione di ammissibilità legata ad una valutazione delle caratteristiche degli immigrati è, nei fatti, selettiva. E selezione può voler dire discriminazione anche quando vengano escluse, nell’operarla, considerazioni legate a etnia, inclinazioni sessuali, religione, opinioni, degli individui. Critiche da dibattere seriamente, senza forzature ideologiche, e confrontando gli aspetti negativi di processi di selezione espliciti, con regole chiare e trasparenti, con quelli inerenti ai processi di selezione (impliciti o espliciti) di altre politiche. Per esempio, le “quote” riservate dalla legge vigente a determinate provenienze geografiche sono selettive in base a considerazioni geo-politiche che poco hanno a che vedere con la disponibilità all’inclusione dell’immigrato. All’immigrazione basata sulla valutazione, inoltre, va affiancato un robusto impegno in programmi di ammissione di immigrati richiedenti asilo o bisognosi di protezione umanitaria — che, per definizione, non possono essere né scelti né valutati.
Il cambio di filosofia — dall’immigrazione “protesi” all’immigrazione “trapianto” — va declinato tenendo nel dovuto conto la complessità della società. Questa continuerà a richiedere sia gli immigrati stagionali, sia quelli “circolari”, sia quelli che, comunque, intendono segmentare il proprio ciclo di vita in paesi diversi. Indurrà all’immigrazione studenti stranieri per lunghi periodi di formazione, una tendenza da incoraggiare perché sprovincializza il paese ed è un’ottima risposta ai processi di internazionalizzazione. Richiederà regimi particolari per particolari figure professionali. Tuttavia questi processi dovranno integrare e completare la funzione principale dell’immigrazione che è quella di rinforzare un tessuto demografico e sociale rarefatto.
La società toscana non appare impreparata di fronte ad un eventuale cambio di rotta della filosofia migratoria. L’immigrazione è diffusa e insediata su tutto il territorio regionale: non c’è comune, per quanto isolato, che non abbia la sua significativa quota di stranieri. Ma anche nelle grandi aree urbane, l’insediamento è diffuso e non vi sono — salvo la macroscopica eccezione della comunità cinese — irreversibili processi di segregazione. La struttura economica permette un dinamico sviluppo dell’imprenditoria straniera. Le autonomie locali appaiono ben preparate per assecondare processi di integrazione. Il volontariato religioso, e quello laico, sono ben preparati. La politica non ha soffiato sul fuoco delle paure. Esiste, insomma, una cultura se non del tutto impermeabile al razzismo, certamente non ostile agli stranieri ed al loro radicamento. E che preferisce, all’immigrazione-protesi l’immigrazione trapianto.
*Università di Firenze
Quaderno di «Servizio Migranti n° 54