(20 giugno 2012) – La ricerca, finanziata dal Ministero dell’Interno – Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione e dall’Unione Europea, nell’ambito del Fondo Europeo per i Rifugiati, ha analizzato l’impatto che i percorsi di accoglienza e i servizi per l’integrazione hanno sulle capacità, sulle opportunità e le realtà di autonomia, di inserimento socio-economico e di integrazione di un target di persone in protezione internazionale, presenti in Italia da almeno 3 anni. Nello studio, che si è sviluppato su 7 territori (Torino, Bologna, Roma, Caserta, Lecce, Badolato e Catania), si sono raccolti 222 questionari rivolti a rifugiati e titolari di protezione sussidiaria presenti in Italia da almeno tre anni; 59 interviste in profondità a titolari di protezione internazionale e 33 interviste a operatori del settore che, a vario livello, lavorano nel settore dell’accoglienza e dell’integrazione. Si sono inoltre realizzati 7 focus group in cui si sono messi a confronto i titolari di protezione internazionale e gli operatori che hanno dialogato sui temi dell’accoglienza e dell’integrazione.
I dati emersi dalla ricerca presentano una fotografia certamente non confortante sul livello di integrazione dei rifugiati nel nostro Paese. Dobbiamo ricordare che i dati quantitativi e le interviste qualitative si riferiscono a un campione statistico limitato, ma secondo il CIR e il gruppo di lavoro, rappresentativo di una realtà più ampia. Dall’analisi quantitativa, i cui dati trovano un riscontro anche nelle storie raccolte attraverso le interviste qualitative, emerge che per quanto riguarda il lavoro il 44,6% degli intervistati è disoccupato, il 4% non risponde, e solo il 51,4 % risponde che ha un’occupazione. Altro dato indicativo è che le occupazioni sono molto spesso non in linea con quella che è la pregressa esperienza personale dei rifugiati: tra i 18 laureati che hanno risposto al questionario, c’è chi fa il bracciante agricolo, chi il custode, chi distribuisce giornali, chi è muratore alcuni fanno anche gli interpreti o i mediatori. Solo uno ha un’attività in linea con la sua professione, il pediatra. Al di là del titolo di studio il 17% è operaio non specializzato, e un altro 40% del campione lavora nel settore delle pulizie, dell’assistenza domestica, dell’agricoltura, della ristorazione o del commercio. Il 75% si dice soddisfatto del lavoro che svolge, ma con motivazioni che fanno riflettere: “perché mi consente di vivere” (27%), “perché non c’è altro” (18%), “perché mi permette di mantenere la famiglia” (16%), “perché mi permette una vita dignitosa” (9%). Ben il 22% degli intervistati lavora in nero.
Per quanto riguarda la condizione alloggiativa il 26% condivide casa con degli amici, il 22% con altre persone, solo il 10% vive da solo e il 21.5% con il proprio nucleo familiare. Il 18% in altre condizioni: occupazioni, presso il datore di lavoro, in centri di accoglienza. Una percentuale rilevante di rifugiati, sebbene in Italia da più di 3 anni, non ha una situazione abitativa autonoma e dignitosa. Pochi quelli che sono soddisfatti della loro condizione abitativa: ben il 50% non risponde o non è soddisfatto della propria condizione abitativa. Perché? Vivono in case sporche, senza riscaldamento e in diversi casi senza acqua. Un ulteriore dato preoccupante è che sulle 222 persone che hanno risposto al questionario solo 60 hanno dichiarato di aver trascorso del tempo in uno SPRAR (27%) e 69 in un CARA (31,1%). Ovvero solo il 58% dichiara di aver trascorso un periodo nel circuito dell’accoglienza.
Nelle interviste qualitative in molti, sia tra gli operatori che tra i rifugiati, lamentano l’assenza di un programma coordinato, l’accesso a diritti certi e servizi omogenei.
Come sottolinea Christopher Hein,
Direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati “le evidenze raccolte nella ricerca ci parlano di un sistema che ha ancora molto da costruire prima di dirsi completo. Nonostante gli sforzi degli ultimi anni, anche grazie al Fondo Europeo, non abbiamo ancora un vero programma nazionale di integrazione. Molto spesso i rifugiati escono dai centri di prima accoglienza senza avere possibilità di accesso a percorsi di integrazione e molti percepiscono un vuoto e un’assenza di opportunità. Nella ricerca abbiamo intervistato anche rifugiati con storie fortunate, è vero. Sono quelli che hanno avuto un graduale e accompagnato percorso verso l’autonomia, che hanno potuto studiare, formarsi e poi introdursi al lavoro. Come CIR crediamo che sia ormai giunta la necessità di una svolta nel nostro Paese: deve essere superato l’approccio per cui si affronta l’accoglienza sotto forma di emergenza e l’integrazione sotto forma di progetti. I progetti sono utili per lo sviluppo di modelli e metodologie, per sperimentare l’innovazione, per affrontare e approfondire problematiche specifiche e per condurre studi, ma non possono e non devono sostituire programmi permanenti.” Continua Hein “Dobbiamo introdurre un programma nazionale per l’integrazione anche in chiave di efficienza economica. Siamo convinti che allo Stato Italiano una procedura d’asilo più snella, tempi più brevi per tutti gli iter burocratici e di conseguenza una durata più breve dell’accoglienza porterebbe a un’economia di spesa che potrebbe essere investita proprio per sviluppare un programma di integrazione. Anche perché la presenza numerica assolutamente esigua di rifugiati in Italia permetterebbe risposte articolate e investimenti reali. Non dobbiamo infatti dimenticare che i rifugiati si trovano per l’80% nel Sud del Mondo, da noi ne arrivano numeri veramente ridotti”.
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Fonte: www.chiesacattolica.it