Non c’è vita dove contano solo le armi
di Don Fredo Olivero
Passato l’incubo dei 102 giorni di prigionia di mia sorella, suor Maria Teresa Olivero, e della sua con sorella Caterina Giraudo, desidero ringraziare attraverso queste colonne le decine di migliaia di persone che hanno sostenuto con me l’attesa della liberazione. Suor Caterina e suor Maria Teresa, rapite a Ei Wak, nel Nord del Kenya, portate in Somalia, ora sono a casa, dopo una liberazione che è stata come una Risurrezione.
Ancora mi chiedo qual è stato l’obiettivo del rapimento. L’unica risposta, finora, è l’avere un riscatto da poveri occidentali, ma pur sempre parte di una società che è disposta a pagare purché i suoi cittadini abbiano il diritto alla vita. «Rallegriamoci ed esultiamo, Signore è stato la nostra salvezza» esordisce la lettera della comunità dopo la liberazione delle due consorelle. «Mia forza il mio canto il Signore, egli è stato la mia Salvezza».
Ci siamo spesso chiesti, in questi 102 giorni di prigionia, come si viva l’attesa di una «liberazione» in un Paese senza leggi dove chi conta ha fucili, dove chi rapisce non ha altri criteri che succhiare denaro a chi – da 87 anni – vive e condivide la propria vita con i poveri, gli emarginati, i malati di Aids o di altre patologie con poche speranze di vita.
Si resta sempre in un’attesa incerta», che può essere interrotta da un qualsiasi contrattempo, dove i rapitori non decidono, ma si rifanno a un secondo livello politico-economico che ritarda le risposte e obbliga i tecnici-politici italiani ad una trattativa paziente, prolungata, stressante.
Forse è stato decisivo l’intervento – su richiesta del governo italiano – del neo presidente Sheikh Sharif (rappresentante della maggiore etnia, vicino agli integralisti islamici, ma con volontà di decidere e creare un «Paese quasi normale») per portare i rapitori alla chiusura della trattativa e al rilascio immediato delle due suore rapite.
Questi lunghi giorni di preoccupazione e speranza, di timore per un destino incerto di due vite minacciate, ci hanno obbligato a pregare per capire che cosa significava questo rapimento, a fortificare la nostra fede e a dare nuovo senso alla preghiera.
Come il profeta Giona, abbiamo capito – dopo tante prove – che Lui era con noi, con i poveri che le suore curavano, con chi cerca ogni giorno la giustizia e non il privilegio.
Questo ci obbliga à ripensare alla «missione», alla testimonianza, ai rischi dell’integrismo religioso, alla presenza di cittadini senza stato che vivono con le leggi di potenza tribale, dove contano le armi e non i diritti di tutti, anche dei più deboli.
La Chiesa tutta è stata molto attenta e anche critica nei confronti di chi lasciava correre il tempo, forse perché «due suorine» contavano meno dei militari o dei turisti di lusso.
Questa esperienza sofferta deve farci riflettere, Non può essere dimenticata, una volta passata la paura. Questi 102 giorni devono insegnarci qualcosa: forse è bene che pensiamo, anzitutto e sempre, alle persone come portatrici di un diritto alla vita degna e libera.