Donne straniere ricongiunte più integrate dei loro mariti
L’analisi del sociologo Ambrosini che emerge dall’ultimo rapporto Orim, sfata il luogo comune sulle straniere dipendenti in tutto dagli uomini. “Imparano la lingua da autodidatte e riescono a destreggiarsi nella burocrazia”. Le più inserite sono le romene
Milano – Rinchiuse in casa, con poca dimestichezza nei confronti della lingua del Paese ospitante, isolate dal punto di vista sociale: insomma protagoniste di una vita parallele che non conosce integrazione. È stato questo per anni l’immaginario più diffuso sulle donne straniere arrivate in Italia grazie al ricongiungimento familiare. Spose e figlie sottomesse, dipendenti in tutto da mariti e padri. Ma qualcosa sta cambiando. E’ quello che emerge dall’ultimo Rapporto sugli immigrati in Lombardia dell’Orim – Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità -, dove in qualche caso sono le donne ricongiunte a essere più integrate dei propri mariti: “Non solo infatti imparano la lingua il più delle volte da autodidatte, ma meglio dei partner riescono a destreggiarsi nella burocrazia italiana, che le vede impegnate a gestire i piccoli e grandi problemi in comune, a scuola, negli ambulatori” spiega Maurizio Ambrosini di Caritas Ambrosiana che per conto dell’Orim ha condotto la ricerca.
Protagoniste 39 donne, 19 romene e 20 bangladesi, residenti tra Milano, Pavia, Monza e le rispettive provincie. “Abbiamo preso in considerazione i casi estremi, in teoria le donne più integrate e quelle meno per capire quale nuovi percorsi mettere in campo per le politiche di integrazione – spiega Ambrosiani – . E i risultati sono stati inattesi”. Sì perché non basta essere donne, avere un’età compresa tra i 19 anni e i 51 ed essere in Italia da meno di 5 anni o più di 11 per avere una storia comune. “La partecipazione ai fenomeni sociali per questi due gruppi è molto diversa – prosegue il sociologo -: le donne romene, ad esempio, grazie all’appartenenza all’Unione europea e alla prossimità linguistica, sono attive rispetto alla ricerca di lavoro e sono inserite in una fitta rete di contatti, ma rischiano di scomparire come comunità: hanno un’integrazione individuale che le porta a essere invisibili e a non favorire rapporti di conoscenza di cui potrebbero beneficiare i connazionali”. Al contrario le bangladesi hanno confermato -salvo 4 casi su 20- la tendenza a una vita appartata, in cui non c’è spazio per il lavoro fuori casa. Una precarietà che occorre superare per evitare che diventino dipendenti non solo dai padri e mariti, ma anche da mediatrici culturali, connazionali e figli che fanno loro da interpreti.
“Anche il mito delle comunità religiose come luogo di aggregazione va sfatato: se le donne bangladesi in 9 casi su dieci vanno in moschea solo per le festività più principali, come la fine del Ramadan e il sacrificio di Isacco, le romene vivono le chiese come luogo di culto e non tanto di incontro”. A essere determinante per entrambi i gruppi nazionali è semmai il “bisogno legato alla cura dei figli”. “È da lì che occorre passare per accelerare i processi di integrazione -conclude Ambrosini-: dalla scuola, ma anche dagli scambi di favore tra vicini di casa e tra mamme di diversa nazionalità che per 28 intervistate su 39 sono tra le persone che si frequentano di più fuori al di fuori famiglia”.
Fonte: www.redattoresociale.it