Abbandonati dalle istituzioni
La situazione dei profughi nordafricani dopo la fine del programma per la loro accoglienza
Le amministrazioni pubbliche devono farsi carico con urgenza della situazione drammatica in cui si trovano i profughi nordafricani rimasti senza assistenza alla conclusione del programma nazionale “Emergenza Nord Africa”. La raccomandazione arriva dal Difensore civico della Regione Piemonte, che nei giorni scorsi è intervenuto dopo l’occupazione di alcune palazzine dell’ex Villaggio olimpico a Torino da parte di circa 300 profughi rimasti senza tetto con la chiusura dei centri d’accoglienza. “Le amministrazioni hanno il dovere di tutelare il diritto di chi chiede protezione umanitaria – ha sottolineato il Difensore civico – provvedendo se necessario anche a prorogare le misure di accoglienza e monitorando in particolare la condizione di soggetti fragili, nel rispetto della Convenzione di Ginevra sui rifugiati”.
Torino e l’emergenza. La situazione di maggiore emergenza si è registrata a Torino, dove si trovano circa un migliaio dei 1.358 rifugiati accolti in Piemonte. Non tutti hanno ottenuto in questi due anni il riconoscimento dello status di rifugiato: la maggioranza ha potuto contare su un permesso di soggiorno umanitario della durata di anno, con il quale non è possibile lasciare i confini nazionali. E molti, soprattutto nel capoluogo, alla fine della fase emergenziale, scaduta lo scorso 28 febbraio, si sono ritrovati per strada. Attualmente, calcolano le associazioni e la Migrantes, sono circa 920 i rifugiati rimasti senza accoglienza; 150, tra donne, bambini e malati, coloro ai quali l’ospitalità è stata sinora prorogata perché considerati “casi fragili”.
Un metodo alternativo. “Nel resto della regione la situazione è tranquilla perché si è lavorato a livello locale con progetti d’inserimento casa-lavoro seri ed efficaci, mentre nel capoluogo questo non è avvenuto e al termine della fase di emergenza le persone sono state abbandonate al loro destino”, spiega don Fredo Olivero, direttore dell’Osservatorio permanente sui rifugiati “Vie di fuga”. I progetti del coordinamento “Non solo asilo”, di cui fanno parte tra gli altri Acli, Gruppo Abele, Società di San Vincenzo, Cisl, Cnca, hanno coinvolto in questi due anni 476 richiedenti asilo, una volta usciti dal programma emergenziale, in 30 comuni piemontesi. “Abbiamo usato un metodo – precisa don Olivero, riferendosi ai progetti delle associazioni coordinate da Migrantes – che si è rivelato efficace al 94% ed è stato alternativo a quello dettato dalla gestione emergenziale, che molto ha contraddistinto la situazione torinese”.
Non servono “parcheggi di persone”. A Torino molti di coloro che sono rimasti senza ospitalità hanno occupato gli stabili costruiti per le Olimpiadi del 2006. Un finale annunciato, che “Non solo asilo” aveva denunciato. “Non siamo stati ascoltati quando abbiamo cercato di dire che con l”Emergenza Nord Africa’ non sono stati dati strumenti e possibilità di autonomia reali ai rifugiati, molti dei quali hanno subito loro malgrado decisioni che hanno avuto gravi ripercussioni sulla loro vita”, dichiara la presidente del coordinamento, Cristina Molfetta. “I ‘parcheggi di persone’ – aggiunge – non sono la soluzione per costruire accoglienza e autonomia. Ci sono state molte storie positive anche in Piemonte, frutto per lo più della grande dedizione umana di molti operatori, mentre troppi enti gestori erano impreparati o interessati alla cassa piuttosto che ai percorsi d’integrazione”. Secondo don Olivero, “adesso tocca alle amministrazioni locali costruire percorsi d’inserimento seri e articolati” e “dare la residenza ai rifugiati secondo quanto previsto dalla legge”.
Piccoli numeri. Le esperienze positive in Piemonte non sono mancate. Una di queste è quella della Caritas di Asti, che in due anni ha accolto presso l'”Oasi dell’Immacolata” una quarantina di rifugiati somali. “Nonostante la fase di emergenza sia terminata, come del resto era previsto, non li abbiamo certo abbandonati al loro destino”, chiarisce subito il direttore della Caritas diocesana, Giuseppe Amico. “Alcuni hanno scelto di allontanarsi, altri invece sono rimasti e li abbiamo ricollocati in quattro appartamenti – racconta Amico -. Così abbiamo dato continuità al lavoro positivo di questi due anni, durante i quali i rifugiati hanno avuto la possibilità d’imparare l’italiano, seguiti dai nostri volontari, e fare 16 tirocini professionali in azienda. Mentre due donne sono state assunte come assistenti familiari”. Altra nota positiva del progetto, al contrario di quanto avvenuto in altre situazioni, la presenza di un numero ridotto di persone: “È stato un aspetto che ha molto facilitato il percorso – rimarca il direttore – perché ci ha permesso di seguire le persone passo passo e di continuare a sostenerle con le nostre forze anche una volta che le convenzioni con lo Stato sono venute meno”.
a cura di Gabriele Guccione
fonte: SIR
Articolo molto interessante… di sicuro non sempre i soliti consigli triti e ritriti… grazie per lo spunto.