Cie di Milo, “uno zoo per esseri umani”
Il racconto della visita al Centro di identificazione ed espulsione in provincia di Trapani di una delegazione internazionale. “Gli stranieri reclusi sono disperati e non sognano altro che di scappare da quella che è solo una prigione”
Trapani – “A vederlo potrebbe sembrare uno zoo ad alta sicurezza, costruito per contenere bestie feroci e tenerle ben lontane dai pacifici visitatori. Eppure, dentro le gabbie non vi sono fiere (e sarebbe comunque crudele tenerle lì), ma esseri umani la cui unica ‘colpa’ è di essere entrati nel Belpaese senza autorizzazione”.
E’ l’incipit del resoconto sul Cie di Milo (Trapani) visitato nei giorni scorsi da una delegazione composta da esponenti di Egam, una rete internazionale antirazzista, da diversi mediatori culturali, da alcuni sindacalisti e da due parlamentari: Davide Faraone del Pd e Erasmo Palazzotto di Sel. Ecco il racconto di tre membri della delegazione: Giuseppe Casucci, coordinatore nazionale del Dipartimento politiche migratorie della Uil; Piero Soldini, responsabile nazionale immigrazione della Cgil e Angela Scalzo, segretario generale Sos Razzismo Italia.
“Siamo arrivati a Milo con un autobus verso le 10.30 del mattino, provenienti da Palermo. La burocrazia ci ha bloccato a lungo prima di poter entrare. Inizia un tira e molla tra i funzionari: quanta libertà di movimento ci può essere concessa? Chi controlla i visitatori che parlano altre lingue? Quanto ci si può avvicinare? La presenza dei parlamentari, comunque, fa gioco e dopo un po’ ci lasciano entrare”.
All’interno della struttura, prosegue il racconto, “sorgono altre quattro aree abitate dai reclusi e pesantemente recintate e guardate a vista notte e giorno. Aree tra di loro separate, isolate dietro cancelli in acciaio alti almeno quattro metri e divise da larghe vie incessantemente pattugliate da militari. Al di fuori, oltre ai sistemi di vigilanza elettronica, militari bardati in equipaggiamento antisommossa, ci guardano circospetti mentre mostriamo il desiderio di avvicinarci alle cancellate per parlare con chi sta dietro le sbarre. Sono sempre pronti alla bisogna, anche perché i 102 stranieri reclusi sono davvero disperati e non sognano altro che di scappare da quella che – senza dubbio – è solo una prigione. Loro si sentono reclusi, anche se i funzionari – con un eufemismo davvero fuori luogo – li definiscono ‘ospiti’”.
“La nostra delegazione è stata divisa in due tronconi separati e avviata lungo i percorsi interni alle aree recintate. Ogni tentativo di avvicinarsi alle cancellate, dove è già presente l’altro troncone della nostra delegazione, viene negato e veniamo invitati un po’ sbrigativamente a spostarci per ‘ragioni di sicurezza’. E’ questo un leit motiv, che verrà utilizzato da guardie, militari e funzionari per tutta la durata della visita. Mentre il nostro gruppo sfila tra gli spazi che separano le quattro enormi gabbie, da dietro le inferriate volti in prevalenza scuri si affacciano a guardarci, le braccia e le mani protese verso di noi, mentre ci gridano e tentano di raccontare la loro sfortunata traversia individuale. Hanno solo quelle occasioni (la visita di delegazioni ufficiali) per tentare di far filtrare la propria storia. Vogliono poter parlare con noi: raccontare il proprio individuale percorso di migrazione, comunicare nomi e numeri di cellulare propri, di parenti, della famiglia in patria; vogliono denunciare le dure condizioni di detenzione, chiedere aiuto. Ma non è così facile: i funzionari che ci accompagnano sono restii a farci avvicinare: l’imperativo naturalmente, la loro parola magica rimane la nostra ‘incolumità personale’ da garantire. Ma da dietro quelle gabbie non vediamo volti ostili, ma solo esseri umani che lanciano una disperata richiesta di aiuto”.
“Tra i funzionari e vigilanti, alcuni appaiono nervosi e si mostrano poco propensi al dialogo. Altri, invece, mostrano gentilezza e un po’ di compassione per le persone recluse. In particolare, ci è sembrata apprezzabile la disponibilità delle assistenti sociali, pronte a mostrarci le schede di alcuni reclusi, correggendo il loro racconto, ma anche raccontando la loro storia e indicando per alcuni la possibilità di soluzioni positive”.
“Superati alcuni sbarramenti, entriamo nell’area più interna al centro. Al di là delle cancellate, si intravvedono grandi strutture metalliche – dall’apparenza magazzini – che presumibilmente contengono gli alloggi dove i reclusi vivono confinati. Non ci è permesso di entrare all’interno ed anche la richiesta che una piccola delegazione degli ‘ospiti’ possa uscire a parlare, viene sbrigativamente rifiutata. Alle nostre rimostranze, la risposta è sempre la stessa: ‘sappiamo noi come gestire la sicurezza delle persone in questo luogo’. Il funzionario che accompagna la delegazione su questo è categorico. Non siamo dunque in grado di testimoniare sulla qualità degli ambienti dove gli immigrati vivono e ci dobbiamo basare solo su quanto raccontato da alcuni di loro. Molte di quelle persone sono condannate a rimanere lì confinate, anche fino a 18 mesi ed a restare nella prigione di Milo – o in altri simili centri – come detenuti, senza aver commesso alcun reato tranne quello di immigrazione irregolare, abominio giuridico inventato nel 2009 dal governo di centrodestra”.
Fonte: cds.redattoresociale.it