Il caso immigrazione divide “La mia classe” gli extracomunitari tra finzione e realtà
Fonte: trovafilm.ilmessaggero.it
Un attore e un regista, Valerio Mastandrea e Daniele Gaglianone, decidono di raccontare l’immigrazione realizzando un film su una classe di stranieri che studiano italiano.
Mastandrea farà il maestro. Gli allievi saranno extracomunitari provenienti dai paesi più diversi. Le loro facce, le loro storie, il loro italiano imperfetto e spesso così espressivo, nutriranno il film facendone quasi un documentario. Ma sul set de La mia classe (Giornate degli Autori) il progetto cambia, si complica, si sdoppia e in parte, volutamente, si sgretola. Attore e regista capiscono che devono fare due film in uno, raccontando non solo quanto era più o meno previsto in sceneggiatura (scritta da Gaglianone con Claudia Russo e Gino Clemente), ma la lavorazione del film, come faceva una volta Godard. I problemi di produzione e di regia, il rapporto con quei non attori, le scene girate due volte per ragioni espressive, i personaggi che intervengono nelle riprese. Magari contestandole, anche perché nel frattempo la vita non si ferma. A qualcuno non rinnovano il permesso di soggiorno, proprio come previsto dalla sceneggiatura. Solo che nel film il maestro attento e democratico chiude un occhio e dice all’allievo-immigrato di continuare comunque a venire in classe (sul set). Ma nella realtà è un altro paio di maniche.
IL PERMESSO
Senza permesso il personaggio-persona non può più lavorare. Dunque Gaglianone e Mastandrea, tutti e due davanti e dietro alla macchina da presa, sono in un vicolo cieco. Non possono infrangere la legge, quell’africano non può più lavorare. Ma andare avanti significherebbe negare le premesse fondamentali del film. Che a questo punto si aggroviglia e si immola, come a testimoniare la propria impossibilità. Interrompendosi, o quasi, e lasciando al loro destino i personaggi, le loro voci, le loro storie e il loro modo così speciale di raccontarle. Con un atto vagamente suicida che è insieme di coraggio e di rinuncia. Rinuncia a trovare la forma, non potendo cambiare le leggi. Rinuncia a difendere il proprio lavoro fino in fondo, riconoscendo insieme ai suoi limiti tutto il peso che spetta al racconto di una realtà che altrimenti, semplicemente, non esisterebbe.
Dice Gaglianone citando il russo Daniil Charms: «Le uniche poesie che vale la pena scrivere sono quelle con dei versi che se si prendono e si tirano contro una finestra, il vetro si deve rompere». Può darsi, ma coinvolgere più a fondo gli allievi-immigrati, anche in quel finale sospeso, avrebbe reso più solido e penetrante questo film interruptus, per metà appassionante e per metà sconcertante. Chi non ha problemi con i suoi personaggi è invece il documentarista Alessandro Rossetto, all’esordio nella finzione. Che in Piccola patria (Orizzonti) accumula trame e sottotrame sufficienti per un intero ciclo, anche se tutto si svolge in poco tempo. Lavorando non sul racconto, come farebbe qualsiasi serie tv, ma sul linguaggio, sulla densità del segno (raro vedere immagini così lavorate in un film italiano), sul dialetto usato non solo nei dialoghi ma nei cori di Paolo Segat e Alessandro Cellai che incorniciano questa storia di fughe, rivolte, ricatti, ambientata in un Nordest spaventoso ma tutt’altro che di fantasia, assicura il regista padovano. Perché da quelle parti nulla sembra andare per il verso giusto. Gli adulti si consumano in esistenze mancate, crisi coniugali o perversioni sessuali, i giovani pensano solo a scappare, magari dopo aver ricattato gli adulti, altri evadono le tasse, tengono comizi contro gli stranieri, si allenano al tiro a segno perché non si sa mai. E tutti tradiscono tutti, a volte anche se stessi, magari senza accorgersene. Un incubo, affidato a immagini così convulse e allarmanti, e così privo di vie d’uscita, per chiunque, che se ne esce sgomenti più che scossi o ammirati.
Fonte: trovafilm.ilmessaggero.it