Dietro l’attentato di Tunisi
(foto:Twitter)
La temuta minaccia terroristica contro il paese simbolo della Primavera Araba è purtroppo diventata realtà. Un commando armato ha attaccato ieri il museo del Bardo, uccidendo 19 turisti, tra cui quattro italiani. Gli assalitori hanno dapprima tentato di irrompere nella vicina sede del Parlamento per poi dirigersi verso il museo e prendere in ostaggio decine di persone, liberate poi dalle forze speciali. Ieri sera le strade di Tunisi si sono nuovamente riempite di manifestanti, questa volta per protestare non contro la tirannia del governo ma contro quella del terrorismo.
Dietro l’attentato di Tunisi vi sono diversi tipi di motivazione. In primo luogo, è innegabile che la Tunisia costituisse un obiettivo in quanto unico esempio di paese nell’area in cui è in corso una transizione politica relativamente lineare, che potrebbe essere descritta come un processo di democratizzazione. Allo stesso tempo, il paese è immerso in un contesto già di per sé molto instabile, con riferimento soprattutto alla Libia, ma anche al poroso confine con l’Algeria. Sicuramente questa instabilità ha facilitato l’infiltrazione di elementi legati al jihadismo.
Chi è stato? Qual è l’elemento di novità?
È ancora difficile poter dire con certezza chi abbia condotto l’attacco. È ipotizzabile che si tratti di un commando vicino alla Brigata “Uqba ibn Nafi”, gruppo jihadista composto da tunisini e algerini formatosi alla fine del 2012 come “costola” di AQIM in Tunisia. Nel 2014, il gruppo ha dichiarato la propria affiliazione all’ISIS e, da quel momento, si temeva che sarebbe potuto arrivare un attentato. A tal proposito, è bene sottolineare come il terrorismo jihadista si manifesti nella Tunisia post Ben Ali almeno dal 2013 e, negli ultimi due anni, abbia già provocato circa 60 vittime in circa 15 attacchi, come riporta la tabella compilata dall’ISPI. In un’analisi dell’attacco redatta da Marco Lombardi, ISPI e ITSTIME, si rileva come l’episodio segni un probabile shift nel paradigma operativo dei terroristi: da rappresentanti dello Stato (quindi hard target) si è passati ad uno dei tipici soft target, i turisti. Finora gli attentati erano avvenuti in posti remoti e di frontiera come mostrato dalla mappa dell’International Crisis Group, ora invece si è deciso di colpire nel centro della capitale. In tal senso, l’attacco potrebbe segnare la svolta “pro-ISIS” del jihadismo tunisino (o di una parte di esso).
Il turismo nel mirino?
Colpire il turismo, in un paese come la Tunisia, equivale a colpire il settore petrolifero in paesi come l’Algeria o la Libia. Il turismo è uno dei traini dell’economia tunisina e, in questo modo, l’intento era quello di mettere in difficoltà l’economia del paese, oltre a colpire turisti occidentali. Il settore turistico pesa per circa il 7% sul PIL nazionale, dà lavoro a più di 400.000 persone e fornisce al paese circa il 20% di valuta straniera pregiata. Prima del 2011 erano circa 7–8 milioni i visitatori annui del paese (equivalenti al 70–80% della popolazione totale della Tunisia). Tale cifra era scesa dopo la rivolta del 2011, ma nel 2013 i dati indicavano già la presenza di più di 6 milioni di turisti. Di questi, circa 560.000 erano italiani. Secondo fonti ISTAT, la Tunisia è la seconda meta turistica per gli italiani al di fuori dell’Unione Europea, dietro gli Stati Uniti.
Una transizione in pericolo?
La speranza è che l’attentato non fermi il processo di transizione in corso in Tunisia. Le forze politiche hanno dato più volte prova di maturità e, ancora oggi, vi è un governo di unità nazionale formato dai due principali partiti: Nidaa Tounes e il partito islamico Ennahda. Come evidenziato da Stefano Torelli, ISPI, nella nota per l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento–MAECI, tale coesione nazionale è alla base del successo del processo di democratizzazione tunisino e ha fatto sì che non si ripetesse a Tunisi quanto successo al Cairo. La relativa forza delle istituzioni e la partecipazione di un’ampia fetta della società civile (dai sindacati alle associazioni femminili) al processo politico in corso, sono elementi che fanno ben sperare circa il futuro del paese, nonostante, rileva Armando Sanguini, ex ambasciatore a Tunisi e Scientific Advisor ISPI, il paese sia costretto a vivere una transizione più lunga del previsto.
Perché la nuova legge anti–terrorismo non può essere il movente dell’attacco?
È stato fatto notare come, proprio ieri, il Parlamento fosse riunito per discutere la nuova legge anti–terrorismo. Ciò che è importante sottolineare è che le falle legislative a livello di anti–terrorismo non si manifestano nell’assenza di una normativa chiara. Al contrario, uno dei problemi della Tunisia in materia di anti–terrorismo (e, in parte una delle cause della radicalizzazione di alcuni giovani tunisini) è costituito dal fatto che il paese ha ancora la legge del 2003 firmata da Ben Ali e criticata da vari enti e associazioni, tra i quali Amnesty International, in quanto lesiva dei diritti umani. In linea con il processo di democratizzazione, le forze politiche tunisine devono rendere anche la legislazione anti–terrorismo, per quanto possibile, compatibile con i diritti civili e politici. Il trade–off tra repressione indiscriminata e leggi che tutelino le libertà civili rappresenta una delle sfide del governo tunisino in carica.
Cosa fa l’Europa?
Oltre al sostegno politico ed economico, l’Unione Europea (e l’Italia) dovrebbero concentrarsi anche su altri aspetti della questione per aiutare la Tunisia a fronteggiare la minaccia terroristica, anche consapevoli che – come nel caso della Libia – si tratta di una minaccia che potenzialmente riguarda anche la sponda Nord del Mediterraneo. La Tunisia non ha storicamente un esercito abituato a combattere forze jihadiste, in quanto tale fenomeno non si è mai presentato nella natura in cui sta accadendo oggi, come affermato da Stefano Torelli, ISPI, su Jamestown Foundation. Fornire a Tunisi sostegno anche da un punto di vista militare e di intelligence rappresenta una delle priorità d’intervento. Alcuni governi, soprattutto la Francia e gli Stati Uniti, lo stanno già facendo.
Fonte: www.ispionline.it