Immigrazione e lavoro: quanto conta l’istruzione?
(foto: Corbis)
Uno studio condotto su immigrati di seconda generazione conferma il ruolo primario della formazione come fattore di mobilità sociale. Ma conferma anche che da sola non basta
di Marco Cosenza
Lo studio è il primo mattone per la costruzione del proprio futuro. A maggior ragione per chi migra dall’estero in cerca di fortuna, o per chi è figlio di genitori stranieri. A mettere alla prova dei numeri queste affermazioni sono i risultati degli studi che Lucinda Platt ha presentato in occasione dell’ultima edizione del Festival dell’Economia di Trento. Per oltre 10 anni la sociologa della London School of Economics ha infatti osservato da vicino le sorti di migliaia di immigrati di seconda generazione nel Regno Unito, e cioè un Paese profondamente interessato dal fenomeno, per poi trarne alcune conclusioni. A partire dal rapporto scuola-lavoro.
“L’istruzione è fondamentale per la mobilità verso alto: è il modo attraverso il quale i migranti hanno successo”, spiega. “Spesso però non è sufficiente per evitare un rischio di disoccupazione maggiore: vediamo anzi che l’elevata istruzione, a volte, non si traduce in analoghi risultati sotto il profilo occupazionale”, aggiunge poco dopo, ridimensionandone l’impatto. La scuola non sarebbe infatti particolarmente discriminante per la prima generazione, ma utile piuttosto alla seconda, per la quale rappresenta un elemento necessario per la mobilità, seppure non sufficiente. Con una certa differenza anche tra i diversi gruppi, in cui “forse la classe sociale conta più dell’etnia“, conclude la studiosa, rispolverando i vecchi ma a quanto pare insuperati limiti in termini di integrazione, dalle disparità economiche a quelle religiose.
La situazione inglese descritta attraverso il progetto Millennium Cohort Studies è peculiare certo, ma particolarmente interessante in quanto oltremanica il fenomeno è avvenuto prima rispetto ad altri Stati europei, come l’Italia, e può quindi rappresentare un buon modello di studio per il futuro. “Gli immigrati in Gran Bretagna rappresentano il 14% della popolazione (contro nemmeno il 10% dell’Italia) e sono ormai in crescita in tutta Europa al punto che in alcuni luoghi possiamo parlare di terza generazione, inoltre molto spesso sono popolazioni giovani, che quindi diventeranno significative per il futuro“.
In questo quadro ogni cambiamento sociale non fa che riverberarsi, con effetti maggiori, sulle generazioni successive. Una situazione che, con le debite proporzioni, accomuna autoctoni e stranieri, e vede i giovani pagare lo scotto delle scelte passate, soprattutto in termini di sicurezze e tutele. “Analizzando i dati vediamo che c’è, effettivamente, una mobilità verso l’alto dei gruppi di migranti, rispetto alle origini svantaggiate, ma non esiste un elemento di protezione per la seconda generazione rispetto alla mobilità verso il basso”, conferma Platt.
Ne sono un esempio i pachistani, sbarcati in Inghilterra già dalla fine degli anni ’60: una minoranza con difficoltà alle spalle, i cui membri sono riusciti in alcuni casi a raggiungere un livello di istruzione migliore dei coetanei britannici, eppure altrettanto spesso non hanno ottenuto un posto di lavoro adeguato al livello raggiunto. È nel gap tra istruzione e corrispettiva occupazione che entrano ancora pesantemente in gioco altri fattori.
“Per capire la posizione delle minoranze etniche, dobbiamo considerare le famiglie di origine e il contesto che si trovano ad affrontare“. A quel punto nulla garantisce che la mobilità avvenga per forza verso l’alto. Perché sia così servono impegno personale e insieme sforzo collettivo, sia in termini culturali, di accettazione (delle regole) e inclusione (delle persone), sia in termini organizzativi, dai tempi ai modi di accoglienza. Solo così i figli potranno aspirare a una vita migliore rispetto a quella dei padri.
Fonte: www.wired.it