Diritto d’asilo: le regole UE e l’applicazione italiana
di Sergio Briguglio
Nel 2004 la UE ha sancito il diritto alla protezione per chi subisce persecuzioni e per chi fugge da conflitti. Ora che le barriere naturali e politiche non impediscono più l’arrivo massiccio di profughi, il regolamento Dublino 3 mostra le sue pecche. E l’Italia lo applica a modo suo.
Il diritto d’asilo nell’Unione europea
L’Unione Europea riconosce il diritto alla protezione internazionale a quanti rischino di subire, nel proprio paese, persecuzione personale (rifugiati) o danni gravi per la propria incolumità a causa di conflitti interni o internazionali (beneficiari di protezione sussidiaria).
Trattandosi di diritti, non è lasciato spazio ai governi per l’esercizio di una valutazione discrezionale sulla opportunità di accogliere il titolare del diritto (per esempio, in relazione ai costi economici o alle tensioni sociali che ne possono derivare). Le autorità possono solo verificare, in ciascun caso, che ricorrano effettivamente i presupposti per il riconoscimento del diritto. Solo in assenza dei presupposti possono procedere all’allontanamento dello straniero che chieda protezione.
La normativa prevede, però, che il titolare del diritto possa farlo valere solo dopo aver messo piede nel territorio della Unione Europea. Non è previsto, cioè, che si possa chiedere protezione quando ancora si risieda nel proprio paese o in altro paese esterno alla UE.
Mentre il numero di coloro che possono concretamente aspirare a essere riconosciuti come rifugiati è piuttosto contenuto (chi è vittima di persecuzione incontra normalmente enormi difficoltà a lasciare il proprio paese), quello di coloro che potrebbero ottenere la protezione sussidiaria è molto alto: l’esodo dai paesi nei quali abbia luogo un conflitto è massiccio, anche se investe in massima parte i paesi confinanti. Se la UE ha sancito, nel 2004, il diritto alla protezione sussidiaria è perché contava, tacitamente, sul filtro costituito dalle barriere fisiche (mare e deserto) e politiche (gli ostacoli interposti dagli Stati da attraversare) che impediscono nei fatti alle persone in fuga da un paese in guerra di raggiungere il territorio dell’Unione.
Negli ultimi tempi, l’efficacia di questo filtro è stata attenuata dal venir meno del controllo esercitato da Stati cuscinetto (in particolare, per il caos creatosi in Libia) e dalle operazioni di salvataggio in mare messe in atto dall’Italia (e, in misura minore, dalla UE). Il primo elemento ha consentito a un gran numero di profughi di raggiungere le coste della Libia e di partire da lì per l’Italia senza che un governo centrale potesse impedire l’esodo (o regolarlo a piacimento quale strumento di pressione nei confronti dei governi della UE). Il secondo elemento ha fatto sì che il semplice mettersi in mare, quale che fosse la precarietà dell’imbarcazione, fosse garanzia quasi perfetta di raggiungimento del territorio italiano (il quasi traducendosi comunque in un gran numero di morti in mare, nei casi di fisiologica imperfezione della rete di soccorso navale).
Il risultato è stato un afflusso di profughi sulle coste italiane, nel 2014, quattro volte più cospicuo di quello registrato nel 2013: 170mila persone contro 43mila.
Il regolamento Dublino 3 e la gestione dell’accoglienza
L’incremento del flusso non costituirebbe comunque, ancora, un problema se fosse in atto un meccanismo di rapida redistribuzione dei richiedenti asilo tra tutti gli Stati UE. La normativa europea prevede però che debba farsi carico dell’accoglienza del richiedente asilo, dell’esame della sua domanda e delle conseguenze del suo esito (protezione o rimpatrio) lo Stato determinato in base alle disposizioni del regolamento noto come Dublino 3. Nella maggior parte dei casi, lo Stato così individuato è quello attraverso il quale sia avvenuto l’ingresso dello straniero nel territorio della UE.
Dal momento che i conflitti più rilevanti hanno luogo, in questo momento, in Medio Oriente e nell’Africa subsahariana, gli Stati UE tenuti a sopportare gli oneri maggiori del flusso di nuovi profughi sono i paesi che si affacciano sul Mediterraneo: Italia, Malta e Grecia, in primo luogo.
In Italia, l’accoglienza dei richiedenti asilo e di quanti abbiano ottenuto protezione è affidata al cosiddetto Sprar. Il sistema è stato potenziato più volte in questi ultimi anni, ma, non essendo ipotizzabile la realizzazione di un apparato largamente sovradimensionato (i costi sarebbero intollerabili), non può che trovarsi in permanente difetto in una fase in cui il numero di profughi cresce di anno in anno.
L’amministrazione italiana, un po’ per inefficienza, un po’ per esercitare una pressione nei confronti degli altri Stati UE, un po’ per scansare immediatamente una parte degli oneri, ha creato i presupposti per un aggiramento di fatto del regolamento Dublino 3, ritardando di molto l’identificazione (con rilevazione delle impronte digitali) e la verbalizzazione delle eventuali domande di asilo dei profughi, e lasciando loro libertà di circolazione (incurante del fatto che, in mancanza di una richiesta d’asilo o di altra ragione umanitaria grave, lo straniero che sbarchi sulle coste italiane dovrebbe essere rimpatriato). L’obiettivo è quello di sfruttare l’interesse di molti degli stranieri sbarcati a raggiungere paesi del Nord Europa, caratterizzati, rispetto all’Italia, da un welfare più generoso e da un mercato del lavoro più ricco di prospettive. Se uno di questi stranieri riesce a entrare – poniamo – in Germania o in Francia, sfruttando l’esiguità dei controlli alle frontiere interne e a presentare lì la propria domanda di asilo, diventa difficile, per lo Stato che ha ricevuto la domanda, dimostrare che la responsabilità spetta all’Italia, non essendovi traccia del passaggio dell’interessato dal nostro paese.
In un secondo articolo di prossima pubblicazione, esamineremo le proposte della Commissione UE per il superamento di questa situazione.
Fonte: www.lavoce.info