Doppi dinieghi: da Milano a Torino “noi non ci stiamo”
Da Milano a Torino inizia a prendere forma l’opposizione di operatori, associazioni e cittadini di fronte alla mole di dinieghi e doppi dinieghi che stanno gettando in “clandestinità” decine di migliaia di richiedenti asilo, anche quando hanno compiuto un percorso di inserimento o hanno addirittura già un lavoro. A Torino si è svolto venerdì 16 il primo incontro pubblico della rete SenzaAsilo. Ne sono emersi un quadro giuridico, alcune esperienze e le prime proposte d’azione giunte dagli organizzatori, dalla rete milanese e dai partecipanti. Fra le altre, una campagna per una legge di iniziativa popolare e un dialogo critico con Commissioni territoriali e tribunali. Fino, se necessario, alla disobbedienza civile.
«Siamo operatori ma anche cittadini, sentiamo di dover provare a tutelare le persone, oltre che gestire un’accoglienza. Così, possiamo fare qualcosa di più che denunciare situazioni e raccontare storie di vita?». Primo incontro pubblico, l’altroieri al Sermig di Torino, della rete informale SenzaAsilo, appena nata su iniziativa degli operatori dei progetti SPRAR subalpini sull’onda della forte crescita sia dei dinieghi alle richieste d’asilo nelle Commissioni territoriali, sia delle sentenze che confermano questi dinieghi nei ricorsi alla giustizia ordinaria (i cosiddetti doppi dinieghi).
Un fenomeno che sta gettando sulla strada e in “clandestinità” decine di migliaia di persone senza tener conto dei faticosi percorsi di inserimento che spesso hanno compiuto. Si sta generando «un vero “esercito di fantasmi” che abita le nostre città, che vive nei nostri quartieri senza diritti né doveri – come hanno denunciato già nei giorni scorsi gli operatori di SenzaAsilo –: migliaia di persone esposte allo sfruttamento e all’illegalità, costrette a una condizione di insicurezza per se stessi, per gli altri e per i territori in cui vivono».
Senza contare, come è stato ricordato al Sermig, le migliaia di persone passate per gli hotspot a partire dal settembre 2015 che non hanno voluto (o potuto) chiedere protezione e hanno ricevuto un inattuabile decreto di respingimento differito come “migranti economici”.
Se questa è giustizia
Foto CIAC, Parma (qui sopra e le seguenti).
«Più che di fronte a un quadro giuridico, siamo di fronte alla preoccupante applicazione di un quadro giuridico – tira le fila al Sermig Lorenzo Trucco, presidente nazionale ASGI –. Abbiamo oggi una normativa tripartita, certo non perfetta ma che dà degli strumenti: la Convenzione di Ginevra per lo status di rifugiato (fin dal semplice “timore” di persecuzione…), la protezione sussidiaria per le minacce alla vita da situazioni di violenza generalizzata. E la protezione umanitaria per “seri motivi” non specificati nel dettaglio… Insomma, la normativa permette di proteggere, se si vuole, è la sua interpretazione che sconcerta».
È il caso, ad esempio, dei dinieghi che ricevono i richiedenti che hanno lasciato il Gambia, nonostante la situazione dei diritti umani in quel Paese e tutto ciò che hanno dovuto subire prima in Libia e poi nella traversata del Canale di Sicilia.
In Italia, tuttavia, l’applicazione della norma giuridica avviene a macchia di leopardo da città a città. Ancora Trucco: «L’esempio clamoroso è quello della “sospensiva” in Appello (cioè la sospensione discrezionale, in caso di ricorso in Appello, del diniego ricevuto in Commissione territoriale, ndr). L’approccio più restrittivo lo si registra a Torino e a Firenze, «dove non la si può più chiedere…».
Milano ha un approccio anomalo, valutando caso per caso ma perlopiù concedendola. Invece Napoli, Cagliari, Venezia, Bologna e Bari ritengono che la legge mantenga la sospensiva perché il procedimento di ricorso prosegue, dal primo al secondo grado.
Diritti umani a discrezione
Dove la sospensiva decade, anche se il ricorso in Appello è ancora pendente si perde il permesso di soggiorno. E l’accoglienza. Con casi paradossali, «come quello di due richiedenti entrambi accolti ad Alessandria ed entrambi appellanti, ma in sedi diverse, a Torino e a Genova: a Torino niente sospensiva, a Genova sì». Mentre, è l’ultima notizia, oggi si chiede agli operatori di mandare i richiedenti nelle Questure per ritirargli il permesso di soggiorno e consegnargli il foglio di via.
A monte, naturalmente, ci sono le forti differenze fra le decisioni espresse da questa o quella Commissione territoriale. Insomma, in Italia «con le stesse condizioni di partenza si può finire sotto un ponte o restare in un ottimo progetto. Ripeto, in un sistema normativo che dà spazi all’accoglienza, siamo di fronte a differenze di applicazione su questioni chiave come i diritti umani. Non possiamo essere complici di tutto questo in un Paese dove ci sono numerose esperienze che dimostrano che vivere insieme è possibile, a partire da piccoli centri come Riace e Acquaformosa, in Calabria. E tanto più in un Paese che all’art. 10 della sua Costituzione afferma: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”».
Dall’esperienza…
All’incontro del Sermig non c’erano solo operatori. Esperienza di una ragazza che vive in un paese ai margini della provincia di Torino: nelle campagne di un comune vicino, una sessantina di richiedenti sono “accolti” in un casolare, «fanno corsi di italiano, ma nient’altro».
E lei, la ragazza, con la sua famiglia ha accolto un richiedente diniegato rimasto sulla strada. «È senegalese, della Casamance, e l’avvocato che lo segue ha detto che per il suo caso ci vorrebbero elementi nuovi. Intanto è ospite a casa nostra, ma non ha diritti. Con altre famiglie cerchiamo di aiutarlo. Però da noi in provincia non c’è pressoché nulla: arrivano in accoglienza in tanti, nei nostri piccoli “comuni-dormitorio”, ed è carente anche l’appoggio di associazioni».
… alla proposta
Però qualcosa ha iniziato a muoversi, e non solo in Piemonte. Donatella De Vito della Casa della carità di Milano ha aggiornato sui primi passi della rete milanese analoga a SenzaAsilo: «Noi pensiamo che sia ormai necessario puntare “in alto”, all’origine dei problemi, cioè alla legge che non protegge abbastanza, coinvolgendo anche i sindacati nazionali e le ACLI (ma c’è anche l’interesse di Emma Bonino) per una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare. Pensiamo a una campagna nelle strade, positiva, “allegra”, per far vedere che immigrazione non significa solo problemi o tragedie».
Altre proposte sono arrivate perlopiù da operatori piemontesi e mediatori culturali immigrati. Cercare un dialogo con la Prefettura di Torino. Premere per una sanatoria a livello nazionale. Ma anche: «Va bene provare a modificare la normativa. Però è forse più urgente e utile cercare un dialogo a livello locale con la nostra Commissione territoriale e con gli organi giudiziari interessati, in un incontro, un convegno: perché a Torino così tanti dinieghi? In Italia ci sono Commissioni e tribunali che si comportano in modo diverso. Ed è proprio impossibile arrivare a riconoscere i percorsi reali di inserimento compiuti dalle persone?».
Un altro operatore: «Occorrerà riuscire a raccontare bene le cose: che la clandestinità ci costa, costa a tutti, in termini anche di ordine pubblico, che migliaia e migliaia di richiedenti asilo sono abbandonati a se stessi nei CAS, senza essere preparati al colloquio in Commissione…».
“Resteranno con noi”
C’è chi è pronto, se necessario, alla disobbedienza civile. Come un giovane piccolo imprenditore che, in contatto con una cooperativa, ha dato lavoro a un guineano. «Ha ricevuto il diniego – racconta – mi ha detto che in patria rischia di essere ucciso per aver provocato senza volerlo un incidente nel suo villaggio. Io là non c’ero, ma so che lui per la mia attività è fondamentale: resterà con me, anche da clandestino».
Ci sono inviti alla prudenza: «Nel “clima” non facile di questo periodo, potrebbe essere più consigliabile cercare soluzioni in iniziative formali dall’“alto” piuttosto che nella disobbedienza “dal basso”».
Ma ha preso la parola anche un parroco dell’hinterland torinese: «Su quello che avviene oggi, forse è il momento di tornare anche a sensibilizzare le comunità ecclesiali, dopo gli appelli del 2015. Dobbiamo autodenunciarci, dire che noi non ci stiamo, che i ragazzi nelle nostre comunità continuiamo a tenerli anche da irregolari. Perché chiamarli “clandestini” sarà ridicolo: le autorità sanno bene che saranno da noi».
Fin qui il primo incontro pubblico di SenzaAsilo. Il suo “cantiere” prenderà forma nei prossimi giorni e settimane coinvolgendo chi ha partecipato all’appuntamento di venerdì.
Fonte: viedifuga.org