Immigrazione: il rischio vero è l’ideologia
di Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin
Fermarsi alla polemica sui singoli sbarchi non è la prospettiva migliore per affrontare il tema dell’immigrazione. Governare il fenomeno richiede nuove politiche in Italia e nella UE. E una ridefinizione delle basi economiche del rapporto Europa-Africa.
Opposti schieramenti
Le vicende della nave italiana “Diciotti” ad agosto e di quella della Ong “Sea Watch” in questi giorni hanno fatto discutere le forze politiche e diviso l’opinione pubblica.
È naturale che sia così, ma seguire la cronaca dei singoli sbarchi non è la prospettiva più adeguata per formarsi una opinione su di una materia complessa come l’immigrazione. Soprattutto non può essere la dimensione sulla quale basare una politica italiana ed europea.
Si dice spesso che occorre superare un approccio emergenziale e che l’immigrazione è un fenomeno che deve essere governato, ma poi il dibattito sembra polarizzarsi sulle due ipotesi estreme. Tra le due fazioni (“a favore” o “contro” l’immigrazione) dovrebbe esistere una terza strada, meno ideologica: quella della gestione dei fenomeni e della programmazione a medio-lungo termine.
Oggi invece, da un lato, c’è la posizione (nettamente maggioritaria nell’opinione pubblica) di coloro che, come il ministro dell’Interno Matteo Salvini, ritengono di doversi opporre a qualunque sbarco, con la motivazione che i flussi migratori sono gestiti dai trafficanti di persone e che non si tratta in realtà di profughi, ma di migranti economici. I suoi punti di forza sono nell’effetto di deterrenza (mi oppongo allo sbarco di oggi per prevenire quello di domani) e nella insipienza dell’Unione europea, divisa a tal punto da sorvolare sui morti nel Mediterraneo e unita solo nel sostegno economico alla Turchia per bloccare gli arrivi dal versante orientale.
Dall’altro lato, c’è una posizione umanitaria che si appoggia sulle leggi e i trattati internazionali e tende a sfumare la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici: “Sono persone che soffrono e non possiamo chiudere gli occhi. Restiamo umani: dobbiamo salvare vite”. I suoi punti di forza risiedono nella divaricazione tra la dinamica demografica africana e quella europea, nonché nelle conseguenze del cambiamento climatico. Seppur non sempre espressi, si intravedono i sensi di colpa per il passato coloniale europeo e lo sfruttamento delle materie prime africane.
Breve storia dell’immigrazione in Italia
Per la sua posizione geografica, l’Italia ha una storia di immigrazione subita e non programmata. In particolare, nel primo decennio del XXI secolo sono arrivate in Italia circa 150 mila persone l’anno, poi regolarizzate attraverso decreti flussi o sanatorie (tra le quali la più importante fu quella del 2003, promossa dal ministro Roberto Maroni, quasi in contemporanea con la firma del trattato di Dublino, che regolarizzò 650 mila persone, in gran parte badanti provenienti dall’Est Europa). Attraverso i ricongiungimenti familiari e la nascita di bambini in Italia, il contingente straniero conta oggi 5 milioni di persone (e oltre un milione di naturalizzati), 2,4 milioni delle quali sono lavoratori regolari che versano tasse e contributi. Il crescente radicamento degli stranieri nel nostro paese rende sempre meno efficaci gli sbarramenti frapposti al godimento dei servizi di welfare, basati sugli anni di residenza.
L’anno spartiacque è stato il 2011 quando, in concomitanza con la crisi economica, si è deciso di sospendere la prassi dei decreti flussi annuali e di considerare gli arrivi sia dall’Africa che dall’Asia come richiedenti protezione internazionale. Non una grande idea.
Se i flussi sono rimasti nell’ordine dei 150 mila arrivi l’anno, la lentezza delle procedure (anche due anni per ottenere una prima risposta e un anno per il probabile ricorso in caso di diniego) e il lievitare dei costi per lo stato (mediamente 4 miliardi di euro l’anno per vitto e alloggio) hanno finito per alimentare una crescente insofferenza nell’opinione pubblica.
Problemi irrisolti
Nessun governo ammette volentieri di incontrare difficoltà a gestire i flussi migratori e che i rimpatri sono difficili e costosi. Nel corso del 2018 si sono avuti circa 7 mila arrivi (per lo più attraverso micro-sbarchi sfuggiti alle cronache) e altrettanti rimpatri (come l’anno precedente e senza la stipula di nuovi accordi bilaterali). Resta invariato lo stock di mezzo milione di irregolari (chiamati comunemente, in modo improprio, “clandestini”) di cui si era tanto parlato in campagna elettorale.
Con l’Africa che viaggia verso 2 miliardi di popolazione pensiamo davvero di poter impedire tutti gli sbarchi? Le parole programmazione e negoziazione devono entrare nel lessico delle forze politiche e dell’opinione pubblica.
Una politica italiana (ma necessariamente europea) dovrebbe agire sul duplice versante dell’asilo e dei migranti economici. Sul primo versante (che riguarda circa il 10 per cento degli arrivi, come disse a suo tempo l’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni) rimane la necessità di riformare l’accordo di Dublino. I paesi di Visegrad si oppongono strenuamente, ma nel dicembre del 2017 il Parlamento europeo aveva indicato una strada possibile. Anche se nel recente passato poteva non essere vantaggiosa per l’Italia essa rispondeva a criteri di equità. Di fronte a gravi crisi umanitarie si potrebbero poi istituire corridoi umanitari. L’Italia può darsi l’obiettivo di esaminare le domande di asilo in un massimo di sei mesi, come gli altri paesi. Se occorre altro personale, sono soldi spesi bene.
Sul secondo versante – i migranti economici – il nostro paese deve svolgere una seria analisi del proprio mercato del lavoro, considerando il calo demografico, gli effetti dell’automazione e l’indisponibilità dei giovani italiani (il loro esodo ammonta ormai a centomila unità all’anno) a certi tipi di impiego. Si dovrebbero programmare flussi per lavoro con alcuni paesi mirati, anche in cambio di numeri certi per i rimpatri, ripristinare l’istituto dello sponsor e finanziare la formazione all’estero. A ciò andrebbero affiancati più investimenti sulle politiche di integrazione (corsi di italiano e mediatori culturali), prevedendo anche una adeguata informazione all’opinione pubblica. In definitiva, andrebbe impostato su basi economiche nuove il rapporto tra Europa e Africa.
Sono politiche difficili, ma non più costose di quelle attuali, che potranno svilupparsi adeguatamente solo nel contesto europeo. Offrono però una alternativa di più lunga prospettiva alla polemica su ogni singolo sbarco, alla strumentalizzazione della paura e ai periodici dibattiti sul come “aiutarli a casa loro”.
Fonte: www.lavoce.info