Gittati
«Senza mandare innanzi una sola parola di introduzione vi annunzio, o dilettissimi, l’argomento, che tolgo a trattare in questa Lettera Pastorale, che secondo l’uso antico e comune della Chiesa vi indirizzo all’avvicinarsi del tempo sacro della Quaresima: l’argomento è L’Emigrazione». Con queste parole, scevre di ogni retorica, monsignor Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona dal 1871 al 1914, apre la sua lettera pastorale del 1896. Si trattava in quegli anni di un tema quanto mai attuale: un esodo che «or cresce, or scema, ma non cessa mai del tutto e che per gli uni è un bene, per gli altri è un male e per non pochi passa come un fenomeno inosservato, perché quasi ordinario e del quale non vale la pena occuparsi. Strano contegno quello di questi ultimi! Come se la partenza dall’Italia di 100.000 persone ogni anni, quanti in media sono gli emigranti, fosse un fatto di nessuna o lieve importanza pel nostro paese».
Il documento, che si propone di indagare le cause del fenomeno, nonché i doveri morali delle classi dirigenti nei confronti dei migranti, non si esime dal ricordare «come il fatto della emigrazione sia strettamente legato a tutte le questioni economiche del lavoro e del salario, dei sistemi di agricoltura e quindi della questione sociale, che muta le forme, ma in sostanza è sempre la stessa». Ciò che maggiormente preoccupa l’autore, è lo stato morale, inscindibile dalle precarie condizioni materiali nelle quali si trovano «gittati» (= gettati) gli emigranti. L’attualità della lettera pastorale di monsignor Bonomelli, come la sua portata profetica, ne hanno suggerito la ripubblicazione, curata da Guido Tallone.
La presentazione del libro, nel corso della quale oltre all’editore e curatore Guido Tallone interverrà anche monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio, rappresenterà un’ulteriore occasione per fare memoria degli anni della cosiddetta “Grande Emigrazione”, l’esperienza migratoria che più di tutte ha inciso sulla demografia, sulle tradizioni e sull’arte degli italiani, che tuttavia, come risaputo, non hanno mai smesso, specialmente ai nostri giorni, di emigrare.
«Come non commuoverci al pensiero dei patimenti morali, che questo strappo della patria deve cagionare in tanti nostri fratelli? Come non volgere un mesto pensiero ai disagi ed ai pericoli della lunga navigazione, specialmente per le donne e pei bambini, e alla sorte si incerta che attende tanti esuli volontari sulle spiagge del Continente americano? Soltanto un uomo senza cuore, senza filo di amore e di pietà pei fratelli sofferenti, che non sa cosa sia patria, può mirare con occhio indifferente quelle lunghe file di vagoni trasportanti a Genova tante famiglie dei nostri sì buoni e sì laboriosi contadini». Parole che, a fronte di quanto avvenuto negli ultimi anni, appaiono ai nostri giorni tutt’altro che desuete.



