Senz’acqua da un mese e tende sui binari, Terminal Ostiense “Lampedusa di Roma”
Fonte: roma.corriere.it
Il campo profughi (non autorizzato) a due passi dal centro: in 150 vivono su cartoni e senza le minime condizioni igieniche. Adesso chiuso l’unico rubinetto
ROMA – La chiamano la «Lampedusa di Roma». Solo che qui non c’è neanche il mare. Ma solo asfalto, sporcizia, abbandono. E disperazione, tanta disperazione. Ci vivono da anni, in oltre 150. Coperti dai cartoni quando è freddo. All’aperto sotto il cielo d’estate. O in tende, «da 8 ma ci dormono anche in 20», piazzate sui marciapiedi ma pure lungo i binari. Non c’è un bagno. Perché non c’è neppure l’acqua, «quel tubo di cantiere da cui ne usciva un po’ è stato chiuso». Proprio adesso che arriva il grande caldo. Dopo il grande freddo.
Senz’acqua e con le tende tra i binari al Terminal Ostiense
NEL CUORE DELLA CAPITALE – Siamo a Roma, Capitale d’Italia. E non in periferia. Ma a due passi dal centro storico, «neanche un chilometro in linea d’aria dal Colosseo», in uno spazio che doveva essere un vanto della città per i Mondiali di calcio del 1990 e che invece da quasi subito si è trasformato in una specie di cattedrale nel deserto abbandonata. Il posto ideale per disperati e fantasmi che popolano la città e cercano di sopravviverci ogni giorno. Terminal Ostiense e dintorni, cioè la «Lampedusa di Roma», residenza ormai quasi ufficiale di rifugiati o aspiranti tali, afghani soprattutto, e tanti bambini. «Il 27 per cento di loro», dicono i Medici per i diritti umani (Medu), associazione che da anni segue e si preoccupa dei disperati del Terminal. Ogni martedì sera, arrivano su un camper-ambulatorio, visitano i rifugiati, gli fanno conoscere i loro diritti.
CAMPO PROFUGHI – «Ma la situazione è sempre peggio – racconta Alberto Barbieri, medico di Medu -, qui al Terminal c’è un campo profughi che neanche in Darfur o in Pakistan, almeno lì ci sono gli standard minimi fissati dall’Onu, qui invece manca perfino l’acqua, vivono in baracche improvvisate, sui cartoni o in tende affollatissime, mancano le condizioni minime d’igiene e proliferano infezioni respiratorie d’inverno e malattie della pelle d’estate».
L’ACQUA – E dalla fine di maggio l’acqua corrente non c’è più. Usciva da un rubinetto collegato ad un tubo, era quella per gli operai di uno dei cantieri edili vicino al Terminal. Poi l’hanno chiusa. E oggi i disperati dell’Ostiense spingono vecchi carrelli del supermercato abbandonati con sopra taniche e recipienti di fortuna anche per 500 metri fino alle fontanelle romane, lì raccolgono l’acqua e poi portano tutto indietro. «Come nelle favelas, – continua Barbieri – ma siamo invece solo ad un chilometro in linea d’aria dal Colosseo». Il Comune è stato sollecitato, «ma nessuno ha risposto». Solo una decina di giorni fa, «dopo vari appelli pubblici, è arrivata la Protezione civile con due autobotti» e l’associazione Albero della Vita Onlus, che segue in particolare i minorenni del Terminal, ha donato due cisterne da duemila litri ciascuna. Appena sufficiente per la primissima emergenza, «ma non è acqua potabile e non può bastare con questo caldo».
L’ALLARME – L’emergenza c’è oggi. Ma c’era anche ieri. Non è una novità. Gli afghani vivono al Terminal da anni. Sono quasi tutti uomini, giovani uomini, a volte minorenni, «e ho incontrato anche bimbi di 13, 11 anni», ricorda Barbieri. Appena un anno fa il mondo si accorgeva di loro quando scopriva che i più piccoli dormivano in buche e nascondevano i loro pochi stracci in tombini. Neanche un anno fa (ottobre 2009) le ruspe arrivavano per distruggere quelle specie di case fatte di cartoni costruite in un grande scavo del cantiere e per mandarli via. «Le chiamano “bonifiche ambientali”, – dice il medico che si occupa di loro -, ma sono sgomberi forzati contrari al diritto internazionale». Qualcuno lì per lì apre gli occhi. Ma poi li richiude molto presto. E loro continuano a sopravvivere nell’inferno a due passi dal centro. Non sono delinquenti, ma uomini che fuggono dal loro Paese e chiedono all’Italia aiuto, un rifugio.