In pellegrinaggio con il popolo gitano
Ogni anno, gli zingari di tutta Europa si ritrovano nel villaggio di Saintes-Maries-de-la-Mer. Un reportage del mensile “Jesus”
SAINTES-MARIES-DE-LA-MER/FRANCIA (Migranti-press 30) – Stordita dal sole capriccioso e intenso di fine maggio, la marea umana dei gitani si infila come l’acqua che esonda: preme per arrivare a toccare la Santa Nera, che questo popolo vagabondo ha eletto sua protettrice, quasi certamente perché le somiglia. La statua viene portata in spalla fino al mare – a tratti anche da alcune donne zingare – lì da dove è venuta, come racconta la leggenda, subito dopo la morte di Gesù, insieme a Maria Jacobi e Maria Salomé, madre degli apostoli Giacomo e Giovanni. Qualcun altro racconta invece che una di queste Marie fosse la Maddalena, sbarcata da queste parti, appunto, dopo la crocifissione di Gesù.
Da ogni parte della Francia, molti dalla Spagna e dal resto d’Europa, giungono qui Rom, Sinti, manouche e kalé, tutti gli anni o quasi, per baciarla, vestirla, incoronarla e acclamarla. Tutti al suo passaggio gridano: “Vive Sainte Sarah”. E per non far torto a nessuno, qualcun altro urla: “Vives Saintes Maries”. La tradizione racconta che queste pie donne furono abbandonate al largo delle coste della Palestina, su una barca senza remi, vele e cibo. Con loro c’era Sara, giovane egiziana dalla pelle scura, loro serva. Lanciato il mantello nell’acqua, questo, per miracolo, si trasformò in barca, così Sara poté condurle in Camargue. Il villaggio dove ormeggiarono prese il loro nome nel 1839: Saintes Maries de la Mer. Qui le donne vissero insieme e Sara, per aiutarle, mendicò. Tra le tante versioni della storia c’è anche quella che vuole Sara già presente nel villaggio quando sbarcarono le due sante. Questo potrebbe far credere che il culto di una vergine nera fosse già ben radicato in loco. Fin qui la leggenda. Per la storia bisogna attendere il dicembre 1448, quando nel piccolo cimitero del villaggio furono scoperti dei crani disposti a croce e due corpi di donna. Vennero riesumati anche un altare di terra battuta e una lastra di marmo, che verrà definita “Guanciale delle Sante”, oggi montato in una colonna della chiesa accanto all’altare delle due Marie. Il loro culto fu consacrato proprio nell’anno del ritrovamento. Oggi il loro altare è pieno zeppo di ex voto per le grazie o le guarigioni ricevute. Sara invece non fu mai riconosciuta santa dalla Chiesa cattolica, forse per il colore della pelle, dunque figlia di un dio minore. Il suo essere “meticcia” però alimenta il suo mito, che pare addirittura collegato al culto indiano della dea Khali o a quello egizio di Iside, perché dove si venerava la dea c’era sempre una sorgente d’acqua, e lì, sotto la cattedrale, nella cripta dove santa Sara tutto l’anno attende i pellegrini, fu scoperta una fonte.
“Questo piccolo villaggio di 2.500 anime di pescatori e agricoltori oggi non è più lo stesso”, racconta Thierry François de Vregille, da 12 anni parroco del paese. “Molti anziani sono morti e qualche famiglia è emigrata: da un po’ di anni sono venuti ad abitarci commercianti e ristoratori e il turismo ha modificato l’identità del posto. Oggi si è meno legati alle tradizioni e più agli affari, e si è perso lo spirito originario dell’accoglienza verso i gitani e il loro folclore”.
È la messa solenne ad aprire i festeggiamenti sacri. Quelli profani, invece, sono già iniziati da qualche giorno. Durante la cerimonia scendono i reliquiari delle due Marie dall’alta volta dell’abside. Le candele accese illuminano l’ambiente antico: tutti cantano e pregano alzando braccia e ceri verso l’urna. Non è ancora arrivato però il momento delle due Marie. Oggi è di scena santa Sara: il flusso di devoti che esce dalla cattedrale non si ferma e in migliaia attendono fuori. Circa 40 mila persone formano la solenne processione che si riversa in ogni vicolo del paese e a tratti si confonde a turisti e curiosi. Alla testa del corteo ci sono i guardians a cavallo, i cowboys della Camargue. E poi decine di stendardi, più o meno preziosi, che raccontano la devozione alla Santa Nera.
Molte gitane, grandi e piccole, per l’occasione sono vestite a festa. Le più anziane, spesso con il viso tatuato, esibiscono fiere le loro lunghe gonne a campana e gli scialli colorati. Le più giovani, altrettanto orgogliose, esaltano la loro provocante femminilità. Ognuna immancabilmente agghindata con collane ed enormi pendenti d’oro. Per tutto il solenne corteo, i musicisti cantano melodie zigane accompagnati dal suono di violini e chitarre.
La spiaggia è a pochi passi. Il momento tanto atteso è arrivato. C’è già una massa accaldata di persone stipata sulla battigia e le dighe che si spingono nell’acqua sono stracolme. La processione entra in mare: i cavalli esitano per il fondo cedevole, gli scalzi portatori della statua anche, ma, noncuranti, invocano con fervore la santa e il suo potere. C’è chi piange e alza le braccia al cielo quasi ad attirare su di sé tutta la sua attenzione. La Santa Nera è al centro della scena nell’acqua: anche i turisti le si appressano per toccarla o per mandarle un bacio da più vicino possibile. È un’atmosfera di gioia e turbamento: le lacrime si mescolano alle risa. L’acqua, simbolo di purificazione e rinascita, sembra dare leggerezza, quasi a liberare le anime dei presenti dal peccato.
Sul sagrato della chiesa, rientrato il sacro corteo, c’è anche il vescovo, monsignor Christophe Dufour, da pochi mesi alla guida della diocesi di Aix-en-Provence. Dopo aver presieduto la celebrazione, si ferma ad ascoltare le musiche gitane e l’atmosfera gioiosa che le accompagna. “Ho pregato molto per prepararmi al pellegrinaggio”, spiega. “Attraverso questa festa, i gitani manifestano la loro fede: sono loro, gente emarginata tutto l’anno, che ci aiuta a convertirci. Spesso vado a trovarli in tutta la diocesi: sia chi da tempo è qui, ormai stanziale, sia chi è arrivato da poco. Ho anche invitato i seminaristi a trascorrere una settimana tra questo popolo, durante la festa dei gitani, e a conoscerli. La Chiesa deve essere mezzo di unità, strumento di fratellanza e trait d’union tra i diversi gruppi etnici per superare pregiudizi e tabù. E se per primi non ci apriamo alla diversità, non saremo mai testimoni credibili”. Melodie note risuonano ovunque fino a notte fonda: i musici accompagnano danzatori per caso, che ballano senza imbarazzo: giovani e vecchi, amici e sconosciuti, gitani e turisti. Non sembra esserci differenza tra gli uni e gli altri e nemmeno pregiudizi, nessuna distanza. Nella folla si sente parlare spesso in italiano: di gitano non hanno nulla, sono giovani in cerca di qualche avventura originale. Ci sono anche molte coppie di mezz’età che quasi ogni anno vengono qui e non solo per la festa religiosa. La Camargue, d’altronde, ha un fascino unico: è la regione dove sfocia il Rodano, il suo delta crea vasti canneti, bianche saline e sconfinate praterie dove vivono allo stato semi-brado tori e cavalli bianchi e dove si possono osservare da vicino i fenicotteri rosa. Un posto così seducente, che Van Gogh immortalò sulle sue tele insieme agli spiriti liberi dei suoi più assidui visitatori: gli zingari.
Il giorno seguente tocca alle Santes Maries, le patrone della città. Si ripete la cerimonia in chiesa, ma stavolta si riesce a respirare nella navata. Alcuni gitani hanno preferito il mercato alle sante: sperano di “prendere la giornata”, vista la folla che gremisce il piccolo villaggio di case bianche e basse. I giovani, e soprattutto le giovani, approfittano di quest’occasione per sfoggiare le loro silhouette, esaltate dai loro abiti più seducenti, e mettersi in mostra per un futuro fidanzamento. “Questo, a volte, è l’unico modo per conoscere ragazzi fuori dal loro clan, allontanando così il pericolo della consanguineità”, racconta il parroco.
Alla processione partecipano le arlesiennes, le donne delle famiglie di Arles, poco distante da qui, nei tipici costumi locali che fanno rivivere un’atmosfera di fine Ottocento. Ancora una volta i cavalieri camarguesi aprono la solenne cerimonia che arriverà al mare, lì dove la storia delle sante è sbarcata in Occidente. “Andare al mare è come andare incontro alle sante che sono arrivate da lì”, dice un cavaliere. Alcuni portatori sono gli stessi del giorno prima: devono aver fatto un voto solenne e impegnativo. Sfilano anche parecchi sacerdoti venuti da tutta la diocesi o da più lontano. Come il giorno prima, procedono solenni insieme al vescovo.
Ancora una volta, l’atmosfera nell’acqua è intensa. Tutti invocano a voce alta le due sante “nobili”, e le vogliono toccare, quasi a rubare un po’ della loro energia prodigiosa. La processione dopo poco ritorna in chiesa. Le due statue vengono poste ai piedi dell’altare. Chi arriva in chiesa per un ultimo saluto o perché non ha preso parte alla processione, le bacia o le accarezza come fossero vere e non dimentica mai di fotografarle. Lo stesso avviene nella cripta dove troneggia la statua di santa Sara, “infagottata” per le decine di centinaia di mantelli e vestiti di seta che le sono stati messi addosso durante il solenne corteo del giorno prima. Nella cappella sotterranea il flusso di pellegrini è costante, nonostante si respiri a fatica: l’ossigeno è mangiato dalla miriade di lumi incandescenti. Il soffitto basso non fa che aumentare la vampa di caldo e di oppressione ma i fedeli non ne sembrano infastiditi: in fila aspettano il loro turno per affidarsi all’eletta e sperare in una grazia. Tra questi c’è Maria Teresa, che sembra gitana: “Sono calabrese e sono venuta a trovare mia nipote, che è gitana e vive a Nizza”, racconta in dialetto stretto.
Se la processione delle due Marie è molto antica, quella del 24 maggio, dedicata a Sara, è nata solo nel 1935. Grazie al marchese Baroncelli, che per rimanere in quel luogo vendette il titolo nobiliare, santa Sara fu accettata dalle istituzioni civili del tempo e ottenne anche l’appoggio della Chiesa. “Dobbiamo a lui se abbiamo un luogo per poterci radunare ogni anno”, dice Xavier, chitarrista rom. “Per noi ha fatto molto, era un amico”.
A organizzare questi giorni di festa è la parrocchia di Saintes Maries con diverse centinaia di volontari insieme al Servizio dei Gitani. “Mai come quest’anno si è vista tanta partecipazione”, dice Anna, una volontaria della comunità. La veglia di preghiera in chiesa si conclude con la “risalita” delle due teche nella cappellina dietro la volta dell’abside. Come sono state calate, altrettanto solennemente vengono risollevate a quindici metri sopra l’altare.
Il popolo dei fedeli inneggia alle sante e le loda. Molti vogliono toccare per l’ultima volta i santi reliquiari sui quali sono dipinte le scene dello sbarco e tengono sollevate le candele accese finché la cassa non sparisce in alto. Si sente la trepidazione dei devoti che, fin dal XV secolo, ripetono gli stessi gesti. In realtà, nel 1794 le teche originali vennero bruciate dai rivoluzionari (in seguito ricostruite fedelmente da un artigiano locale). Una parte delle reliquie, però, sarebbe stata messa al sicuro nottetempo dal parroco e da alcuni fedeli. “Nell’anno del Giubileo, abbiamo cambiato il rito: il vescovo, insieme a santa Sara, arrivava dal mare in barca e benediva la folla orante”, racconta ancora il parroco. “Abbiamo ricevuto molte critiche: per qualcuno cambiare la tradizione corrispondeva a un sacrilegio. Allora siamo tornati all’antica usanza e nessuno si è più lamentato”, sorride il religioso.
“I molti gitani convertiti di recente sono veramente legati a questo pellegrinaggio e dimostrano in tutti i modi la loro fede”, spiega ancora. “Spesso, questo è il primo di una serie di pellegrinaggi che compiono nell’arco di un anno in tutti i santuari della Francia. Vanno anche a Saint Jean, ad Avignone, a Lourdes, a Notre Dame de Lau, a Mont St. Michelle e altri. E così ogni anno. Qui si riuniscono le famiglie che magari sono sparpagliate per l’Europa”, racconta. “Quante persone chiamano e ringraziano per la fede che hanno visto. Una coppia di Parigi mi ha fermato e mi ha espresso la propria commozione per le intense processioni e per la fede che qui si celebra. Una signora di Bordeaux mi ha telefonato e commossa ha espresso la sua gioia per essere stata presente all’evento solenne”. Sullo spiazzo davanti alla cattedrale continua la festa. Due sacerdoti, ora in borghese, sono seduti sulle panchine a fumare e osservare l’allegria tutt’intorno. “I gitani ci ricordano la nostra ‘temporaneità’ sulla terra e anche per questo motivo tendiamo ad allontanarli”, racconta Jean Marie Eyroi, cappellano che si occupa di particolari gruppi. “Sono parroco di zingari, handicappati e alcolizzati nella città e mi basta”, ride.
È prete da 37 anni a Perigueux in Dordogna. Un cane sciolto: “Ho fatto l’agricoltore, il commerciante, e a 30 anni ho conosciuto la Bibbia, ho studiato teologia e sono diventato prete”, sintetizza senza fronzoli. Ci tiene a raccontare la sua esperienza tra i gitani: “Gli zingari danno un diverso valore a ciò che li circonda. Sono molto più affezionati alle cose che alle case, anche perché molti di loro sono stanziali solo d’inverno; poi da febbraio se ne vanno in giro vendendo quello che hanno recuperato i mesi precedenti”, spiega. Accanto c’è anche un suo amico, prete anche lui, un colosso: Gilbert, di Bordeaux, che vive da un po’ di anni con una famiglia di gitani rom formata da padre, madre e due figli. “È una scelta radicale. Ognuno ha i propri ruoli in famiglia: io sono come uno zio. Anche le spese vengono equamente divise. Non sento mai la solitudine, che in genere è un vero tormento per noi preti. In questi anni ho imparato la tolleranza e l’accoglienza: solo stando con le persone si impara a condividere. Oggi il mondo non accetta la diversità. Invece i gitani sono molto ospitali e cordiali e ti rispettano”. Accanto a Gilbert c’è Nina, sulla settantina, delegata per i gitani di Bordeaux. “Padre Gilbert è la nostra guida spirituale, una presenza fondamentale per la nostra comunità”, dice fiera.
Alcune donne gitane lì vicino mendicano, altre, vestite con abiti succinti, ma poco attraenti, non predicono più la sorte, come facevano fino a pochi anni fa, ma, se non le fermi in tempo, ti appuntano al petto una spilla di santa Sara per cinque euro, soprattutto per la buona sorte che questa porta con sé. Il ballo nelle strade del villaggio non si ferma. Le bambine e le madri sono accompagnate dalla chitarra di fratelli o padri; flamenchi improvvisati animano le strade e, all’imbrunire, anche gli accampamenti delle bianche roulotte di questo “popolo del vento”. “Sono venuto anch’io con il mio camper e qui ci sono dei miei parrocchiani”, racconta ancora Jean Marie, che ci invita ad andarlo a trovare dove si è temporaneamente fermato. Ormai l’enorme spiazzo si è quasi svuotato: ci sono solo pochi caravan. Ancora una volta il viaggio ricomincia: tutti s’incamminano verso casa con la promessa nel cuore di ritornare a trovare le sante, puntuali come ogni anno, per rivivere questo momento di fede. E ritrovare gli amici di sempre. (S. Laurenti, Jesus, luglio 2010)