Le porte d’europa
Quale politica d’immigrazione comune?
BRUXELLES/BELGIO (Migranti-press 36) – Nessuno può negare che l’Europa del dopoguerra abbia messo tanto in comune, dalla produzione del carbone e dell’acciaio nel 1952 alle regole commerciali, dalla politica agricola alla Moneta Unica dei giorni più recenti. Con risultati nel complesso positivi per la democrazia e la cittadinanza. Al tempo stesso, va purtroppo sottolineato come l’Europa allargata dopo il crollo del Muro di Berlino non riesca ancora a dare alle sue Istituzioni ed ai Governi degli Stati membri una linea condivisa e condivisibile nel settore dell’immigrazione.
Succede anche altrove (affari esteri, istruzione, sanità), con differenti gradi di intensità, ma la “confusio” quasi anarchica che caratterizza il modo in cui le singole Capitali affrontano la problematica del controllo delle frontiere in generale rappresenta una lacuna che Bruxelles ha il dovere morale oltre che politico di colmare. Senza poter contare sul “lusso” dei tempi lunghi che la storia di solito offre alle mutazioni sociali: il fenomeno dell’immigrazione tanto legale quanto clandestina verso l’Europa – e di conseguenza anche intraeuropea – ha assunto negli ultimi vent’anni dimensioni tali da rendere assolutamente inefficaci (oltre che probabilmente ingiuste) molte delle misure tampone che i Governi di vario colore ed appartenenza ideologica pongono in essere a concertazione limitata, se non nulla.
Non giova alla risoluzione del problema la natura “multidisciplinare” dello stesso: entrano in gioco la povertà dei Paesi d’origine dei flussi migratori, cui si affianca la povertà sempre crescente anche del mondo occidentale; il razzismo, velato e non, che riveste l’argomento come una patina non sempre invisibile ma assolutamente presente; la pochezza del dialogo interculturale, per lo più politicizzato e dunque destinato al fallimento a priori; l’elevato costo economico delle azioni di monitoraggio delle frontiere marine e terrestri, laddove il Nord Europa ritiene pilatescamente competenti i soli Paesi meridionali; la difficoltà ad individuare misure di integrazione sì flessibili ma il più possibile condivise da Stato a Stato, da Regione a Regione, da Città a Città, da impresa a impresa; legislazioni nazionali differenti che consentono – soprattutto in tema di immigrazione clandestina – una sorta di “programmazione calcolata” dei flussi sia per chi li gestisce illegalmente sia per gli stessi immigrati in base alla severità o meno della pena; una sostanziale scarsa cooperazione tra le autorità competenti che soffrono dell’assenza di un riconosciuto indirizzo politico-giuridico comunitario; non da ultimo, l’incapacità del Consiglio Europeo e dei Capi di Stato e di Governo che ne fanno parte nel definire una strategia unica di negoziato diplomatico con i Governi dei Paesi di origine dei flussi migratori.
Tutto ciò nonostante l’esistenza di previsioni, seppur di natura soft, all’interno trattati.
Conseguenza inevitabile: le poche misure amministrative valide – che pur esistono qua e là ai quattro angoli del Continente – non sono valorizzate né tantomeno riprodotte. Lo stesso dicasi per le molte lodevoli iniziative estemporanee di privati e/o di associazioni, su entrambe le sponde del Mediterraneo, condannate ad avere portata, successo e seguito limitati.
Se il fallimento della politica appare evidente, altrettanto evidente è la necessità di (ri)fondare la politica comune sull’immigrazione partendo dagli esempi positivi della cosiddetta società civile: le buone prassi – e la storia dell’integrazione europea ben lo sa – costituiscono non di rado la testata d’angolo per edifici resistenti. In tema di immigrazione e di integrazione, quando al centro si mette la persona – con i suoi drammi ma anche con la sua voglia di riscatto e progresso – i risultati si vedono. Immigrazione non è solo ordine pubblico, ma anche diritti umani, rispetto, solidarietà, crescita sociale, sviluppo economico. Per chi accoglie, certo, ma anche per chi domanda di essere accolto. Le norme devono essere pensate in virtù della dimensione umana (non solo umanitaria): così la politica seguirà, e seguirà anche la gente. (Gian Andrea P. Garancini, )